MARCO PANTANI Chi ha ucciso il Pirata? Un mio articolo per la Gazzetta dello sport.it

Condividi l'articolo

MORTE DI MARCO PANTANI:

La prima macroscopica incongruenza è questa: gli agenti della volante che intervennero sul posto non stilarono alcun verbale, o, almeno, non ce n’è traccia. Eppure per terra, sul pavimento del bilocale D5 del residence delle Rose di Rimini, sul soppalco, in una pozza di sangue, quel 14 febbraio 2004, non c’era l’ultimo arrivato. Il cadavere era quello di un grande beniamino degli appassianati di ciclismo: Marco Pantani di Cesenatico, detto il Pirata, 34 anni, da qualche tempo fuori dal giro anche per le inchieste sul doping. Era arrivato a Rimini da pochi giorni: il 9 febbraio. Stava recuperando la forma fisica e la fiducia in se stesso. Chi lo aveva visto nei mesi precedenti in un noto locale della riviera romagnola descrisse un uomo solo, seduto in un angolo, con lo sguardo vuoto e, soprattutto, appesantito nel fisico in maniera assai evidente. Alcune fotografie rubate e impietose mostravano un ex atleta irriconoscibile. Non era così quando trovarono il suo corpo senza vita: il Pirata stava ritrovando la toncità fisica. La decisione di chiudere questo dramma come suicidio, o come suicidio “involontario” per un’overdose di cocaina, apparve subito assai farraginosa, poco credibile. Anche a qualche cronista che provò, senza successo, a convincere che c’era bisogno di approfondire. Troppi erano, e subito constatabili, i punti oscuri, a cominciare dal fatto inspiegabile di prenotare un residence per togliersi la vita, o per morire di overdose. Intanto le condizioni della sua stanza: disordine, segni di colluttazione, come se ci fosse stata una lotta corpo a corpo, scatole di farmaci sparse. Nel cestino c’erano i resti di un pasto di cucina cinese ordinato a un take-awai, ma Pantani non mangiava quel tipo di cibo. E poi quella bottiglia di acqua con la quale il grande campione sarebbe stato costretto a ingurgitare con la forza cocaina diluita; i tre giubbotti, di cui uno molto pesante, appesi, ma che lui non aveva con se il 9 febbraio quando arrivò a Rimini con poche cose: medicine e necessaire per la barba. E, infine, la più incredibile delle sviste: il cadavere di Pantani trascinato dal luogo dell’omicidio in cima al soppalco, su per una rampa di scale e abbandonato supino tra il letto e la balaustra. Dunque, una domanda: chi e come ha effettuato il sopralluogo in una scena del crimine, peraltro, inquinata da passaggi non controllati di almeno cinque persone prima dei rilievi? Nessuno si è chiesto chi ci fosse nel bilocale con lui a mangiare pietanze orientali, nessuno ha cercato di rilevare le eventuali tracce di dna sotto le sue unghie, nessuno ha cercato le impronte digitali. E ancora altre stranezze: testimoni che cambiarono versioni, i contrasti tra le perizia del dottor Fortuni che collocava l’ora della morte alle 11,30 e la relazione del medico Toni che invece parlava delle 17; il medico legale che dopo l’autopsia si accorse di essere seguito. Ne volontariamente ne involontariamente: Pantani non si è tolto la vita. Pantani è stato ucciso. La perizia, preparata per conto della famiglia del cilcista dall’avvocato Antonio De Reniis, che mette in fila le infiinte negligenze investigative, ha consentito alla Procura della repubblica di Rimini di riaprire il caso. Il fascicolo nelle mani della giovane pm Elisa Marocco, 33 anni, arrivata a Rimini il 15 febbraio 2014, parla di omicidio, ribaltando le ipotesi giudiziarie delle indagini condotte dal pubblico ministero Paolo Genganelli. Il processo di primo grado, inziato il 12 aprile 2005 a Rimini, portò all’assoluzione della cubista russa Elena Korovina e alla condanna di Fabio Carlino, proprietario di un’agenzia di ragazze immagine, ritenuto il palo dei due puscher che avrebbero consegnato la dose letale di cocaina a Pantani: Ciro Veneruso e Fabio Miradossa. Veneruso e Miradossa patteggiarono il primo una condanna a quattro anni e 10 mesi e il secondo a tre anni e 10 mesi. Ma il 10 novembre 2011 la Cassazione prosciolse da ogni accusa, “perché il fatto non sussiste”, Fabio Carlini. I colpevoli, dunque, restarono due: Veneruso e Miradossa. Unici colpevoli o meri esecutori? Il sospetto forte , infatti, è che lo scenario reale del luogo dell’omicidio, raffiguri una premeditazione “scientifica”: le botte alla vittima, la cocaina fatta ingurgitare con la forza, la stanza messa sottosopra per depistare costruendo un disordine come fosse stato provocato da una persona sotto l’effetto della cocaina, il cadavere trascinato in un altro posto, così da far pensare che fosse morto vicino al letto sul soppalco. Anche se era noto che Pantani dormiva sul divano. Il punto è questo, e ce lo rivela uno degli investigatori del Nas che fermò il Pirata a Madonna di Campiglio nel 1999, e, nel 2004, impegnato nella maxi inchiesta della Procura romana oil for drug: “aspettavamo una sua telefonata. Credo che volesse dirci qualche cosa. Non ha fatto in tempo”. Se davvero il Pirata voleva parlare con chi, di fatto, aveva segnato la fine della sua carriera, probabilmente quel che aveva da dire era davvero molto importante. E, forse, inquietante.
Marco Gregoretti
Marco Pantani