Archivio di Greg. Nassirya: le foto e i ricordi. Chi ha ucciso quei Carabinieri?

Gaetano Vultaggio, il Carabiniere sopravvissuto all'attentato di Nassirya del 12 novembre 2003, che intervistai nel 2005
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Il 12 novembre 2003, un camion bomba supero’ le inesistenti protezioni della palazzina dove a Nassiriya, Iraq, era posizionato il contingente dei Carabinieri italiani: trenta morti, di cui 12 erano appartenenti all’Arma. Rimasi sempre collegato, dal giorno stesso, con i sopravvissuti di quella tragedia. Due anni dopo andai a Savona a incontrare un paio di loro per chiacchierare. Uno volle consegnarmi i suoi ricordi in un’intervista, che, in realtà fu lo sfogo di un uomo finito. Grande, forte, potente. Ma definitivamente morto dentro. Ho custodito molto gelosamente quell’intervista. Eccola. Insieme alle foto di quel giorno drammatico (che ancora attende un risarcimento morale e civile), alle immagini di come il maresciallo intervistato passo’ le ore prima dell’attentato e a quelle che denunciano l’assoluta mancanza di anello protettivo, nonostante i servizi segreti avessero avvertito dell’imminenza dell’attacco
MG

Barba di qualche giorno, occhi azzurri, capelli brizzolati raccolti in un codino. Con quel giubbotto blue, i jeans e le scarpe ginniche scure sembra un attore. Invece é un carabiniere, maresciallo aiutante, esperto in antidroga, missioni in Macedonia, Kosovo e Irak. Si chiama Gaetano Vultaggio, ha 47 anni e tre figli. Da due anni la sua vita é diventata un inferno. Esattamente dalle 10, 40 (8 e 40 in Italia) del 12 novembre 2003, da quando un camion pieno di 500 chili di esplosivo si é schiantato contro una palazzina di Nassiriya. Trenta morti: 11 irakeni, 2 civili italiani e 17 militari italiani, di cui 12 Carabinieri. Vultaggio é uno dei 26 sopravissuti: non dorme più, é in terapia psicoanalitica, assume ansiolitici e antidepressivi. Viene assalito da improvvisi mal di testa «Anche adesso mentre parlo con lei». Soprattutto: l’Arma l’ha congedato perché «non più idoneo». Disoccupato. Sabato 12 novembre é il secondo anniversario dell’attentato contro la postazione italiana in Irak. Una strage che sembra essere stata messa nel cassetto degli eventi da dimenticare, salvo ricorrenza. Forse perché ci sono troppe domande ancora nell’aria. Si poteva evitare? I sopravissuti come stanno? Come vivono? Cosa ricordano di quel giorno? Quali riconoscimenti hanno avuto dallo Stato? «Giustamente a Nicola Calipari il presidente Carlo Azeglio Ciampi ha conferito la medaglia d’oro al valor militare e alla memoria. A noi un croce di latta. Mah! Potevano dare la medaglia d’oro alle vedove dei nostri colleghi?». È la prima risposta. Ed é quella del maresciallo aiutante Vultaggio. Ci incontriamo in un bar di Savona, dove vive. Con lui c’é un suo collega: erano insieme a Nassiriya, nella stessa squadra. «Per favore, però, non scriva il mio nome. Faccio parte di un reparto delicato e non ho ancora deciso se restare nell’Arma o no. Dopo tutto quello che é successo, la delusione é grande».
Maresciallo Vultaggio lei, invece, ha deciso di parlare: con nome e cognome. Perché lo fa?
Perché ho tante cose da dire. A cominciare dal fatto che quella strage si poteva evitare…
Ferma. Lei sta dicendo che c’era la possibilità che quei suoi colleghi non morissero?
Esattamente. Arrivavano molte indiscrezioni…Dovevano avvisarci.
È sicuro di quanto sta dicendo?
Sono sicuro perchè ho 25 anni di esperienza nell’Arma.
Fin qui é soltanto una sua impressione.
Allora diciamo che ho saputo che lo sapevano. Guarda caso la tv Al Jazeera era sul posto. Credo che in realtà volessero arrestare Al Zarqawi lì sul posto prima che succedesse. Invece…
Ma chi sapeva?
Lasciamo stare. E comunque era dal nostro arrivo in quella palazzina maledetta che segnalavamo un situazione che di fatto poteva diventare pericolosa anche dal punto di vista logistico.
In effetti basta vedere le foto
Guardi la base non doveva essere al centro della città, così scoperta e indifesa. Tutte le altre erano nel deserto. L’obiettivo é stato scelto dai terroristi perché era facile da colpire. I nostri rapporti con la popolazione erano buoni. Anas, il nostro interprete, ci diceva che all’inizio il 75 per cento degli abitanti, poi il 50, erano contenti della nostra presenza. I bambini mangiavano. Perfino i detenuti ci ringraziavano: avevamo pulito le loro prigioni e offrivamo cibo decente. Certo eravamo sempre stranieri nel loro Stato: e questo non fa mai piacere. Che rabbia. Con un minimo di precauzione si poteva evitare: ad esempio con difese passive a zig zag, bloccando le strade e non riempiendo di sassi gli involucri che sono diventati proiettili. Tutte osservazioni che avevamo fatto. E poi, lo dico ancora, dovevano avvisarci di quello che stava per succedere
Lei cosa ricorda della missisone?
Appena siamo arrivati ci hanno fatto firmare il foglio per sottoscrivere il codice militare di guerra. Ma come, non era una missione di pace? La seconda cosa che ricordo é che ci siamo messi a riempire sacchetti per proteggere in qualche modo la nostra caserma penetrabile come il burro. Ne abbiamo fatti 3.800. Hanno salvato un po’ di vite: mai tanto sudore é stato buono.
Come passavate le vostre giornate?
In tensione 24 ore su 24. Era bello aiutare i bambini. Era doversoso, perché dovevamo farlo, addestrare la polizia locale. Meno piacevoli i continui conflitti a fuoco notturni con la delinquenza comune. Per il gran caldo (si arrivava a 68 gradi e non si poteva toccare nulla senza guanti), a volte dormivamo nel terrazzone sul tetto a rischio dei colpi in caduta di chi sparava in aria: erano i più pericolosi. I ricordi più belli sono quelli della nostra amicizia: eravamo diventati come una famiglia. Sapevamo tutto uno dell’altro. Facevamo le feste in terrazzo con la carne alla brace e la birra. Il 15 novembre dovevamo andarcene tutti. Invece tre giorni prima…
Cosa le é rimasto più impresso nella mente di quel giorno?
(Risponde l’altro carabiniere: hanno lo sguardo lucido tutti e due). Si sono sentite alcune raffiche, alcuni spari. Poi un secondo di silenzio ovattato. Sensazione strana: come avere le orecchie otturate. Quindi l’esplosione forte, terribile. La palazzina sventrata, un cratere per terra. E quei colleghi straziati. Questo non potrò mai dimenticarlo: tutte quelle ore, dalle 11 di mattina alle sei di sera tra i pezzi dei corpi dei nostri amici. Un pene, un pezzo di gamba, una testa. Con i cani che portavano via i pezzi di carne umana dei nostri amici morti. No! Sono fortunato, perché sono vivo, ma ho anche il senso di colpa di esserci ancora. Se avessi saputo cosa sarebbe successo dopo la strage, non ci sarei andato a Nassiriya.
Perchè cosa é successo?
Dimenticati. Capisce questa parola? Dimenticati. Non ho visto nessuno. Non riusciamo ad avere neanche una qualche forma di rimborso di quello che abbiamo perso: la fede, la catenina della prima comunione, una parte degli stipendi che avevano voluto farci prendere, in contanti, a tutti i costi. Tutto é rimasto la sotto. Non mi importa tanto di quegli otto mila euro in contanti. Anche se dopo due anni non mi hanno ancora risposto per dirmi se otterrò un risarcimento. Mi sarebbe bastato che qualcuno, mi chiedesse: come sta Vultaggio? Magari una telefonata di qualche ufficiale di Roma. Niente di niente. Non ci hanno nemmeno permesso di portare a spalla le bare dei colleghi: per esigenze di protocollo servono Carabinieri giovani e belli, ci hanno detto. Abbiamo dovuto litigare per assistere alla cerimonia in Chiesa. Io sono rimasto fuori, sotto i portici: ricordo che quel giorno l’unica parola di conforto l’ho avuta da un capitano donna. La Regione Liguria ha fatto un convegno su Nassiriya: ha invitato tutti tranne noi. Hanno paura che pèarliamo? Che raccontiamo qualcosa?”.
Più che un’intervista un drammatico sfogo. Si chiude così, con i due carabinieri che mi fanno vedere una foto in bianco e nero con la palazzina sventrata: sopra cé scritta una poesia. «E’ tutto quello che abbiamo: l’ha scritta per noi Fernando Mameli, diretto discendente di Goffredo, il poeta che ha scritto l’Inno nazionale».
Marco Gregoretti

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