Archivio di Greg. Quando Berlusconi si candidò la prima volta e vinse le elezioni. Che botta per il salotto buono! I miei ricordi di cronista nella redazione più chic e liberal d’Italia

Quando Silvio Berlusconi si candidò alle elezioni politiche del 1994. Foto Panorama
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Se avessi approfondito avrei fatto lo scoop dell’anno, prima del mezzo annuncio che fece Carlo Rossella in un editoriale della Stampa. Il direttore di Panorama Andrea Monti (gigante del giornalismo periodico ) e la sua vice Maria Luisa Agnese (altra certezza giornalistica a sette stelle), fine 1993, mi affidarono un reportage sull’ Università milanese Luigi Bocconi, suggerendomi di intervistare Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica e coordinatore del Centro studi di politica comparata, che, con ogni probabilità, aveva concordato una disponibilità a rilasciarmi qualche dichiarazione. L’affresco sull’ateneo economico finanziario riuscì benone. E la chiacchierata con il professore fu davvero interessante. Mi parlò a lungo, con un mezzo sorrisino sulla bocca, di un importante progetto che stavano elaborando per l’Italia partendo da Milano…. “Più non le posso ancora dire”. Avrei dovuto insistere, mi stava annunciando la creazione di Forza Italia e l’idea di presentare il partito alle elezioni politiche del 1994. Avevo lo scoop nel taccuino, non l’avevo capito e Urbani fu uno dei più apprezzati ministri di due governi Berlusconi. Sono convinto, che sia Monti che Agnese, e anche il presidente della casa editrice, Leonardo Mondadori, ne fossero a conoscenza…. A distanza di 29 anni mi sono fatto l’idea che fu un modo doppio di utilizzarmi: per accreditarmi in quel mondo e per far capire a chi di dovere che Panorama annunciava l’avvio di un progetto nuovo. Roba di potere. Che io non ho mai saputo gestire bene. E neanche cogliere. È che sono istintivamente un cane sciolto. Ma, come mi ha sempre suggerito la mia mentore Agnese, “sorvoliamo”. Io non sempre ci riesco … Comunque: l‘idea iniziale di Forza Italia, che coinvolgeva anche Don Luigi Verzé, fondatore dell’Istituto San Raffaele, non prevedeva la discesa in campo direttamente di Silvio Berlusconi, piuttosto si stava studiando la candidatura di Bettino Craxi, già nel mirino del pool di Mani Pulite, ma ancora in Italia, in un collegio sicuro, tipo quello di Bari. Ma pochi lo sanno. Poi gli eventi precipitarono. E il Cavaliere se ne occupò direttamente. Attribuendosi la missione di salvare l’Italia dal comunismo. In realtà si trattava di qualche cosa di più di un vecchio e desueto tormentone ideologico, al netto degli sfottò. Ancora oggi, infatti, nell’archivio storico di Pistoia sono conservati e “secretati” decine di documenti dattiloscritti che uscivano dalle Prefetture d’Italia e che “verbalizzavano” segretamente le riunioni sindacali e di partito nel corso delle quali si valutava la possibilità di favorire l’invasione, per regalare al blocco comunista lo sbocco nel Mediterraneo. Ho avuto in mano, letto e riletto, quella documentazione, prima che Licio Gelli la consegnasse all’archivio, all’inizio del terzo millennio, allora diretto dalla moglie di Massimo D’Alema. Strane storie… L’ultima di quelle carte che lessi a Villa Wanda, ad Arezzo, in uno dei numerosi incontri “rivelatori” che ebbi con il capo della P2 (poi mi rubarono il computer… caso strano) era datato 1975, esattamente l’anno della prima grande vittoria del Pci di Berlinguer, alle elezioni amministrative. Poi, pochi mesi dopo, nel 1976, ci fu l’affermazione alle politiche. Insomma, prima che i rapporti si rompessero malamente per via dei giudizi fortemente negativi che Gelli dava alle performance private di Berlusconi, il Venerabile aveva ben istruito il futuro premier. E la risposta elettorale, peraltro, gli diede ragione: in Italia, nel 1994, vinse ancora una volta la maggioranza silenziosa, quella anticomunista.
Per la redazione del mio giornale, Panorama, ammiraglia che da sola faceva la metà degli utili della casa editrice Mondadori (parliamo di alcune decine di miliardi di lire), la partecipazione diretta di Berlusconi alle elezioni (peraltro, aveva precedentemente annunciato che a Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini sindaco), fu un fulmine a ciel sereno. Anche per quei colleghi che avevano visto di buon occhio il passaggio della casa editrice dall’ingegnere Carlo De Benedetti a lui. Le assemblee di redazione erano diventate una conta su chi stava con chi e servivano a dichiarare scioperi pretestuosi su tutto. A me personalmente fregava una sega delle pippe mentali dei colleghi più “sindacalizzati”, o figli dell’estremismo di sinistra (quanti poi, si sono piazzati in Fininvest e in Mediaset?). Trovavo ridicolo protestare perché Berlusconi non procurava a prezzi di favore le Audi ai giornalisti di Panorama. Qualcuno si incazzò perché non votai a favore di un sciopero proposto quando l’amministratore delegato, Franco Tatò, impose una campagna antisprechi che toccava anche le cosiddette mazzette di giornali che ognuno di noi aveva a disposizione. Uno status symbol per darsi un tono andando in giro con una ventina di quotidiani italiani e stranieri sotto il braccio. Ma il fondo di tanta fibrillazione era puramente ideologico. O meglio, rappresentava la volontà di conservare posizioni di rendita e di potere che, oggettivamente, l’avvento dell’uomo di Arcore poteva far saltare. Il direttore, Andrea Monti, aveva il suo bel da fare nel gestire una redazione cresciuta con Lamberto Sechi, (number one), Carlo Rognoni e Claudio Rinaldi che aveva spostato decisamente a sinistra il news magazine. Tant’è che quando arrivò Berlusconi a Segrate, Rinaldi andò a dirigere il nemico storico, L’Espresso. Che per tutta la campagna elettorale pubblicò copertine a raffica contro il fondatore di Forza Italia, descritto come un piduista, golpista, poco chic e che con le sue tv si sarebbe impossessato del Paese. A me venne la nausea e allora, per reazione, votai per i radicali che avevano fatto l’alleanza elettorale con Forza Italia.
Gli articoli di Panorama sul partito di Berlusconi furono affidati a me. Raccontai l’apertura del primo circolo di Forza Italia, a Sesto San Giovanni, dove incontrai il collega della Rai Riccardo Iacona, che stava facendo la stessa cosa per Michele Santoro. Poi fu la volta dei giovani “forzisti”. Scrissi un’inchiesta di apertura del giornale. Spiegai che non avevano la coda, che leggevano dei libri, che andavano al cinema, che si fidanzavano, si sposavano, cercavano casa e lavoro… E che facevano tutto questo anche se non erano di sinistra. Incontrai la responsabile degli under 30 e delle donne: era una mia vecchia amica che non vedevo da 20 anni. Alessandra Fontana si chiama. Era rimasta come l’avevo vista l’ultima volta da adolescenti, a Torino, al Casanova, una discoteca dove si andava il sabato pomeriggio: molto carina e piuttosto attraente. Di default le malelingue idiote le attribuirono l’ “amantaggio” con zio Silvio.
E qui viene il bello. Bastarono due articoli per guadagnarmi, tra i miei colleghi di lavoro, l’etichetta del giornalista di destra, berlusconiano. Più o meno contemporaneamente Prima Comunicazione, la rivista che si occupa dei giornali e degli editori, pubblicò la lista dei giornalisti comunisti. Si sosteneva che l’avesse stilata di suo pugno il Berlusca in persona. Bene, c’era praticamente tutta la redazione di Panorama. Quindi anche io. Per Berlusconi ero comunista, per una certa parte della vecchia guardia di Panorama ero di destra. Una medaglia! Perché io ero, sono un giornalista che non appartiene né agli uni né agli altri. Si sono rassegnati: “Greg, sei un giornalista!”.
Il primo congresso di quel partito si tenne in un palazzetto dello sport, ma non ricordo quale. Ancora un po’ e mi picchio con un cretino del servizio d’ordine. La disposizione degli organizzatori, idioti quanto lui, era: “I giornalisti che entrano non possono uscire prima della fine del congresso”. Capito i liberal? Il culto della personalità. E dell’ignoranza: un giornalista deve andare a scrivere a un certo punto. E, in effetti, io dovevo rientrare al giornale per forza. Piantai un tale casino che ritennero più salutare “liberarmi”. Era cominciata l’era berlusconiana. The show must go on. Poi, giubilato Andrea Monti, alle cui dimissioni “forzate” seguirono quelle di Maria Luisa Agnese, si diedero il cambio due direttori. Giuliano Ferrara, già militante sessantottino a Valle Giulia, poi, prima di dichiararsi craxiano, dirigente di primo piano del Pci torinese di Diego Novelli e Roberto “Nini” Briglia, ex capo del servizio d’ordine di Lotta Continua a Milano. E poi il berlusconiano ero io

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