Archivio di Greg. Siamo antropologicamente le bestie peggiori. Leggete questa mia inchiesta sulla violenza domestica, scritta 26 anni fa. E facciamoci tutti insieme due domande

Un'immagine simbolo di violenza o di difesa dalla violenza
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Testata Panorama
Data Pubbl. 08/02/1996
Numero 0005
Numero Pag. 0040
Sezione ITALIA
Occhiello VIOLENZE QUOTIDIANE / PerchÉ esplodono tra le mura domestiche
Titolo GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN INFERNO
Autore MARCO GREGORETTI
Testo Ci sono affermati professionisti che massacrano di pugni la moglie e i figli. Figli che legano a una sedia l’ anziana madre. Madri che gettano i neonati nei cassonetti e persino mogli che picchiano i mariti. Per non parlare di quell’ imperscrutabile mondo delle violenze psicologiche. Destano grande scandalo le notizie di stragi in famiglia che giungono dagli Usa, ma anche in Italia tra le quattro mura domestiche si consumano efferatezze inaudite. Le vittime designate sono quasi sempre i bambini: 7 mila al giorno nel 1995 hanno tentato di mettersi in contatto con Telefono azzurro, 900 ci sono riusciti (tabella qui a destra). Adesso, però, per aiutare a battere l’ omertà e il silenzio, per arginare il fenomeno, per punire i colpevoli, anche i tribunali si dotano di strutture nuove. Il primo pool sulle violenze in famiglia è nato a Milano. Ne fanno parte quattro sostituti, un procuratore aggiunto, due ispettori di polizia, tre vigili urbani (articolo nella pagina a fianco). Panorama ha seguito da vicino il loro lavoro. E ha raccolto cinque storia di ordinaria violenza familiare. O rubi o ti manganello. Da un viso ancora tumefatto due occhi impauriti chiedevano aiuto, chiedevano di essere tenuti lontani dal luogo dei loro piccoli grandi incubi quotidiani. Il magistrato, la psicologa e il medico che l’ avevano presa in cura e accolta in un rifugio dove c’ erano altri bambini come lei, non forzavano la mano. Finché Susanna Milenkovic, zingarella slava di nove anni, costretta all’ accattonaggio e al furto in cambio di botte, senza enfasi e senza lacrime ha detto: “Non voglio più tornare in quella casa che cammina (la roulotte, ndr) dove mi fanno dormire sotto il letto di mamma e papà”. Preferiva restare nel centro di accoglienza. “Perché qua non picchiano i bambini e non li mandano a rubare”. Almeno non avrebbe dormito per terra, la mamma, il fratello grande e “qualche volta anche papà” non l’ avrebbero massacrata con il “pendreko”, un manganello bitorzoluto, se non rubava o se accettava i regali di qualche passante intenerito, non l’ avrebbero abbandonata per intere giornate, non sarebbe stata costretta a tenere addosso per settimane gli stessi vestiti “che puzzavano tanto, tanto”. E’ la storia che per nove anni ha segnato la vita di Susanna. Fino a quando un vigile urbano l’ ha trovata in una gelida giornata di gennaio in piazza Duomo a Milano. Era vestita con una lunga gonna di cotone leggero, aveva una t-shirt e un K-way tutto strappato. Ai piedi, senza calze, portava un paio di scarpe che, come raccontò il vigile “avevano il didietro schiacciato e le trascinava a mo’ di ciabatte”. Era zuppa di pioggia, infreddolita, denutrita, un occhio era chiuso da un grande livido, l’ altro segnato da occhiaie profondissime, il cuoio capelluto pieno di crosticine di sangue. Dai primi accertamenti, i medici dell’ ospedale San Carlo le riscontrarono “oltre all’ ematoma periorbitale sinistro, anche escoriazioni multiple in regione anale e agli arti inferiori e piccole cicatrici in tutto il corpo”. Sua madre, Biserka Djordjevic, è stata condannata a due anni e due mesi di carcere, suo papà, Slavko Milenkovic, a un anno e otto mesi. Nessuno dei due può avere contatti con la figlia. Ma, soprattutto, è lei che ha deciso di non volerli mai più vedere. Susanna ha vinto la sua battaglia per tornare alla vita: è stata adottata, prima zingarella in Italia, da una famiglia di Milano. Le è tornato il sorriso e, per riconoscenza, scrive lettere e manda disegni ai magistrati che hanno preso a cuore la sua storia. Legata sul ballatoio. Il funzionario dell’ Iacp di Milano non voleva credere ai propri occhi. Il 16 novembre scorso era andato con alcuni colleghi a eseguire in via Palmieri l’ ingrato compito che si chiama, in burocratese, “operazione di sgombero di inquilini morosi”. Non capiva perché quell’ anziana donna, dall’ aria molto fragile e rassegnata, stesse seduta su una rudimentale seggiola in ballatoio. Gli bastò avvicinarsi un po’ per spiegarselo: la signora D., genovese, 84 anni, era legata allo sgabello con un filo elettrico, “assicurato”, poi, con un lucchetto al tubo del gas. La bella pensata l’ avevano avuta il figlio e la nuora con i quali vive tuttora in un bilocale. Lei naturalmente non ha sporto denuncia perché con le 600 mila lire che le arrivano dalle due pensioni non può permettersi di andare altrove. E poi perché, in fondo, un minimo di calore quando i familiari sono in casa riesce ad averlo. Il problema è che non ci sono quasi mai. E allora come fare affinché non combini guai tra le mura domestiche visto che più volte l’ hanno notata che parlava da sola con lo specchio? Lasciarla fuori. La poveretta ha trascorso intere giornate sul ballatoio. E quando aveva bisogno di andare in bagno, resisteva fino alla sera. Poi un giorno ha cominciato a suonare ai vicini: così, per fare due chiacchiere e, soprattutto, come raccontarono i vicini ai funzionari dell’ Iacp “perché aveva bisogno del bagno”. Forse la nuora e il figlio se ne vergognarono. Allora, per evitare “che disturbasse i vicini” trovarono una soluzione radicale: legarla alla sedia. Però fuori casa. Ma se qualcuno le chiede di raccontare questa storia D. fa come i bambini e risponde con qualcosa che, per orecchie superficiali, non c’ entra niente: “Che bello quando vivevo a Genova: potevo andare a messa da sola”. Quando è lei a menar le mani. Il medico di turno, all’ ospedale di Abbiategrasso, ha avuto qualche attimo di titubanza: com’ è possibile che un uomo in discreta forma fisica venga ridotto così dalla moglie? Eppure S., 45 anni, tenore di vita medio-alto, era pieno di lividi, ecchimosi, graffi: sul torace, sotto l’ ascella destra, sul collo. A conciarlo così era stata la sua gentile consorte. E’ vero i rapporti tra i due erano tesi da tempo, e presso il tribunale di Milano pende una causa di separazione. Però, tutte quelle botte prese, e perdipiù davanti ai figli, hanno spinto S. a denunciare la moglie per lesioni e danneggiamenti. “Non ce la faccio più” ha detto all’ avvocato. La sera che è andato al pronto soccorso, l’ ennesima lite. Nata, ovviamente, per futili motivi. Lui che stende la propria biancheria e riordina la cantina. Lei che gli butta le magliette per terra e rovescia tutti i secchi della spazzatura che il marito aveva appena riempito. Lei che gli nasconde le scarpe per dispetto. Lui che chiede dove sono. Lei che lo colpisce ripetutamente con uno spazzolone sul torace e lo afferra per il collo strappandogli la catenina. Lui che la denuncia. E il figlio, adolescente, che verrà sentito come teste. La violenza più ingrata, ancora una volta, tocca al più debole: testimoniare contro uno dei genitori. Ma che amore d’ Egitto! Sembrava quasi una bella storia, all’ insegna dell’ integrazione razziale, dell’ incontro di culture diverse, della tolleranza religiosa. Ma la scintilla scoccata tra l’ egiziano Yahia Hassan e l’ italiana Dilva Belia si è trasformata ben presto in un incendio molto doloroso. Botte, minacce di morte, insulti, intimidazioni costanti nella loro casa di Lainate. Ancora una volta una vittima innocente: il piccolo Karim che oggi ha 6 anni. Di quelle scenate violente non se n’ è persa neanche una: la mamma piena di lividi e il papà che inveiva. Che faceva irruzione persino all’ interno della scuola dove la moglie insegnava. La mamma che querela il papà. Il papà che minaccia la mamma: “Se non ritiri la denuncia porto via Karim. Lo faccio venire con me in Egitto e tu non lo vedrai mai più”. E poi le testimonianze scritte: certificati medici che spiegano dettagliatamente lo stato fisico di Dilva, la perizia psicologica su Karim. Il Tribunale ha condannato Yahia Hassan a lasciare la residenza di Lainate. Ma non è chiaro se lui se ne sia andato. “D’ altronde” dicono i sostituti procuratori del pool milanese sulle violenze in famiglia “ha dalla sua parte alcune leggi del suo paese d’ origine e, soprattutto, la religione musulmana. E’ vero, qui vigono le leggi italiane, ma lui si sente le spalle coperte”. Un meccanismo analogo deve essere scattato nella mente di un altro egiziano trapiantato a Milano. Si chiama Mohamed Rezk, ha 38 anni ed è il marito separato di Simona Roveda. Soltanto che qui il finale è diverso. Un giorno è andato a pranzo fuori con la figlia. Poi è sparito con la piccola Sara. L’ ha portata con sé in Egitto. Sono passati tre anni e c’ è chi teme che Sara viva in una tribù del deserto.