Un giornale on line, sabato 3 giugno 2023, titola: la Cia sapeva che sarebbe stato ucciso. Indubbiamente il giovane collega che ha trattato la questione ha fatto un buon lavoro. Si riapre il capitolo della morte di Marco Mandolini, maresciallo del nono battaglione Col Moschin, corpo d’elite di incursori. L’uomo che seguiva come un’ombra il generale Bruno Loi, quando comandava i reparti italiani delle Forze di pace Nato a Mogadiscio, nel 1993. Mandolini fu trovato senza vita in fondo alla scogliera del Romito, a Livorno, il 13 giugno 1995. Dai referti risulterebbe che sia stato ucciso da 40 coltellate e da una pietrata in testa a fracassargli il cranio. Una modalità eccessiva che, con ogni probabilità, serviva a depistare su un falso movente. Ma ancora non possiamo considerare chiuso il caso. Quello che è successo in Somalia negli anni Novanta è, per la cronaca e per il capitolo misteri grondanti sangue, un po’ come il Mostro di Firenze.
Non se ne verrà mai a capo: gli assassini dei giornalisti della Rai, Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, a Mogadiscio, il 20 marzo 1994, quello dell’agente segreto Vincenzo Li Causi, responsabile del centro Scorpione di Trapani, a Balad, il 12 novembre 1993, Marco Mandolini, appunto, 13 giugno 1995… Una scansione quasi seriale. E ancora: le navi dell’ammiraglio Mogne che ufficialmente trasportavano banane mentre, come avevano documentato Ilaria e Miran nel Bosaso, in realtà erano cariche di fusti contenenti rifiuti tossici e forse radioattivi che i nostri ufficiali, con i nomi nelle mimetiche occultati, provvedevano a scaricare e a interrare, trasformando un terra baciata da Dio nella discarica del mondo “civile”. I paracadutisti italiani uccisi nell’imboscata al check point Pasta mentre il capo missione generale Loi era chiuso in ambasciata che non sapeva che cosa fare.
Era questa la cosiddetta Missione di pace Ibis, nell’ambito di Restore Hope, durante la quale le forze della Nato avrebbero dovuto cercare di pacificare una zona del mondo falcidiata dalla scia di sangue provocata a colpi di Ak 47 dagli uomini di Aidid contro quelli di Alymadi, i cosiddetti signori della guerra. Signori, in realtà ,di crimini, di traffici, (in combutta con tanti occidentali, anche italiani, ricattati per le vecchie porcate della Cooperazione) e di fondamentalismo. L’Occidente dava la caccia ad Aidid e, per raggiungere lo scopo, cercava l’alleanza di Alymadi che, già allora, era “amico fraterno” di un certo Osama Bin Laden. Forse Ilaria lo aveva capito. Sicuramente aveva contezza degli stupri, delle torture, dei traffici di organi e di esseri umani appena nati di cui aveva spesso parlato proprio con Li Causi, come testimoniano gli appunti lasciati da quest’ultimo, scritti su pezzetti di carta intestata dell’Ambasciata italiana. E come racconta nel dettaglio, il diario di Francesco Aloi, maresciallo del reparto di eccellenza dei Carabinieri, Tuscania, che, in Somalia, aveva compiti di polizia militare, scomparso dopo una lunga malattia, probabilmente causata dal contatto con l’uranio impoverito, già presente a Mogadiscio e dintorni nel 1993.
Nella agghiacciante testimonianza scritta da Aloi, in una pagina bianca, che segue i racconti della morte di Li Causi e di Ilaria Alpi, sono disegnate tre croci. E, sotto, un grande punto interrogativo. “Sì” mi disse nel 1997 “rappresentano le morti di Ilaria, di Vincenzo e di Marco Mandolini”. E il punto interrogativo? “Dove vi sarà la quarta croce, la mia”. Aloi era convinto che sarebbe stato ucciso. Provarono a farlo secco anche in caserma, a San Miniato, proprio nel periodo in cui ci frequentavamo. Con una spazzata lo buttarono giù dalle scale. Riuscì ad attutire le conseguenze grazie alla sua approfondita pratica del kung fu, con una Maestro di Empoli. Ritentarono un’altra volta, ma non fecero in tempo a sparargli. C’ero anche io. Ci buttammo sotto il tavolo. Infine dovette nascondersi nei boschi, in una tenda canadese. Forse si salvò grazie agli articoli su di lui che decisi di scrivere quando lavoravo a Panorama. Altre stranezze ci capitarono. A Roma, per esempio. Beccò due finti tecnici che stavano entrando nelle nostre camere d’albergo. Eravamo nel salone e lui li aveva visti salire. “Vieni Marchino, vieni. Corri, corri, guarda ora che succede…”. Rideva. Ma, cazzo…. Oggi penso che tra i fatti di cui lui aveva scritto nel diario, pericolosi per la sua incolumità, c’erano proprio le considerazioni che aveva affidato a quelle pagine sulla morte di Mandolini. Scriveva: “È morto anche il maresciallo Mandolini, non c’è male come sceneggiata”. E aggiungeva: “Solo un incursore può uccidere un altro incursore. Questo è ciò che si dice”. In quella cloaca storica di ogni schifezza e corruzione compiuta da enti, istituzioni, apparati e miltiari italiani, che è diventata la Somalia, erano, dunque, maturate le situazioni che avevano decretato la condanna a morte del maresciallo del Col Moschin.
Subito dopo il ritrovamento del cadavere a Livorno provarono a farci bere la stupidaggine che fosse stato ucciso e buttato giù dalla scogliera per questioni legate alla sua presunta omosessualità. Una squallida bugia, sessista si direbbe oggi, da bastardi si potrebbe dire sempre. Si parlò anche di suicidio. Ora, secondo voi è davvero così facile spingere giù da un dirupo e spaccargli la testa con un pietrone un militare dei corpi speciali iper addestrato, esperto di qualsiasi arte marziale, di armi, di armi bianche, di lotta corpo a corpo?, Uhmmmm. E infatti: “Solo un incursore può uccidere un altro incursore”. In questo caso, poi, sarebbero stati perfino due gli aggressori a lottare con Mandolini per poterlo eliminare.
Era proprio necessario ucciderlo? Perché era pericoloso lasciarlo vivere? Che cosa sapeva? Lo scoop di un quotidiano in rete adesso racconta che la Cia fosse a conoscenza in anticipo del delitto e qualcuno suggerisce di cercare il movente nell’attività investigativa e riservata che l’incursore avrebbe avviato per saperne di più sulla morte di Li Causi. Più probabile, in realtà, che Mandolini avesse messo insieme i pezzi e che fosse a conoscenza di fatti che avrebbero portato alla decisione di “terminare” l’agente del Sismi, secondo alcune versioni colpito da una pallottola vagante, secondo altre ipotesi ucciso da un ribelle. A quel livello conoscere i possibili moventi, significa anche avere contezza degli esecutori. Così come è abbastanza agevole per chi, come Mandolini, aveva esperienza sul campo, riconoscere il modulo usato da certi apparati per far fuori qualcuno. Insomma, Mandolini sapeva su che cosa stesse indagando Li Causi. Così come, lo ricordo en passant, lo sapeva anche Ilaria Alpi. Una catena: Ilaria, Aloi, Li Causi, Mandolini…
L’ammiraglio Falco Accame aveva investigato a lungo sulla morte del maresciallo del Col Moschin e più volte ci eravamo incontrati per parlarne. Lui aveva battuto anche la pista delle assicurazioni dei militari, probabilmente legate ai danni provocati dall’uranio impoverito in Somalia, dove i militari italiani erano gli unici a non rispettare le esortazioni a proteggersi insistentemente segnalate dagli americani, anche con cartelloni e con volantini. Accame aveva il sospetto che Mandolini si fosse ammalato e che fosse a Livorno proprio per fare delle analisi di cui avrebbe parlato con qualche ufficiale della caserma Vannucci.
Chissà. Come sempre la verità non esiste. Il maresciallo del Col Moschin è stato ucciso perché indagava sulla morte di Li Causi? E può essere vero che l’intelligence americana, pur sapendo che lo stessero per uccidere, non avrebbe fatto nulla per salvarlo? Oppure erano suffragate dalla realtà dei fatti le intuizioni del compianto ammiraglio Accame depositate, probabilmente, negli archivi dell’Anavafaf (L’Associazione nazionale che si occupa dei familiari delle vittime militari in tempo di pace che aveva fondato.)? Io guardo i fatti che ho appuntato nei miei taccuini: un filo rosso collega quattro omicidi e un tentato omicidio. Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Vincenzo Li Causi, Marco Mandolini e Francesco Aloi condividevano la notizia che li condannò a morte.
Marco Gregoretti