Archivio di Greg. Vicende oscure, piccoli azionisti truffati, mai risarciti e capri espiatori. Banco Ambrosiano: “Dove sono finiti i soldi sequestrati a Licio Gelli?”. Un articolo che scrissi 13 anni fa, quando lavoravo a Milano Finanza. Prima puntata

Una vecchia immagine di repertorio del Banco Ambrosiano
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Banco Ambrosiano: che fine hanno fatto i soldi sequestrati a Licio Gelli?
Sommario (od occhiello proposto): Nell’intrigata vicenda della banca di Roberto Calvi ballano 8,5 milioni di dollari che spettavano alle parti civili. L’avvocato dei piccoli azionisti cercandoli ha scoperto due patti segreti e inconfessabili su una cifra colossale. Il capo della P2 conferma i suoi sospetti. E si allea con lui. In questo gioco di paradossi c’è una sola certezza: i più deboli hanno perso tutto

Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri, a Londra, il 18 luglio 1982

I paradossi della misteriosa storia d’Italia. Che cosa c’entra il dipendente di una azienda brianzola che guadagna 1000 euro al mese con il maestro Venerabile della loggia massonica P2? E come è possibile che questo lavoratore che sbarca il lunario a fatica e l’oramai quasi novantenne inquilino della ricca magione aretina villa Wanda siano legati da un’alleanza strategica? Eppure è proprio così: Mario Molteni, ex imprenditore, con il fratello, nel campo del materiale elettrico e piccolo azionista del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, ridotto sul lastrico, e Licio Gelli, condannato il 10 giugno 1996 a 12 anni per il fallimento dell’istituto di credito milanese, sono di fatto, e non solo tatticamente e casualmente, alleati. Gelli il18 ottobre scorso ha scritto una lettera di 60 righe ai presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato, al Csm e al governatore della Banca d’Italia.
Licio Gelli a Villa Wanda, nel 2007

Questo è l’inizio: ”Dopo il saccheggio perpetrato in danno ai piccoli azionisti con il fallimento del Banco Ambrosiano Spa, le istituzioni bancarie hanno completato l’opera con la estorsione effettuata ai miei danni…”. La missiva conclude “I piccoli azionisti sono stati scippati di una somma che la Magistratura milanese aveva loro giustamente assegnato. La storia si ripete…”. Dal canto suo Molteni , il più tenace e insistente del gruppo dei cento piccoli azionisti che oltre a perdere le 400.000 azioni per un valore di 20 miliardi di allora, in molti casi sono stati distrutti, dal crack e dalle seguenti azioni del liquidatore, non molla. La perseveranza fatta di lettere, mail e denunce, tra cui un recente esposto alla procura di Brescia contro tre magistrati che si sono occupati del caso Ambrosiano, potrebbe sollevare un velo sull’intero scandalo. E raccontare una storia diversa da quella che abbiamo sentito dal 21 giugno 1982 (Roberto Calvi fu trovato morto il 18), quando Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, su proposta della Banca d’Italia presieduta da Carlo Azeglio Ciampi, dispose lo scioglimento degli organi amministrativi della Banca. Una storia fatta accordi segreti a Zurigo e a Lugano tra organismi pubblici italiani e banche estere, tra i liquidatori e Licio Gelli, mai menzionati negli atti. Una caccia al denaro dei piccoli azionisti finito chissà dove, con soldi spartiti estero su estero, con milioni di dollari che si volatilizzarono prima di essere restituiti alle parti civili, con documenti probatori spariti dai fascicoli, ma trovati in copia nelle ambasciate. E con il paradosso, candidamente ammesso dalla documentazione processuale, che il capo della P2 è stato condannato sul nulla. Qualcosa di più che una spy story, qualcosa di più del solito intrigo levantino all’italiana.
Una vecchia immagine di Francesco Pazienza, agente segreto, depositario di tanti segreti che gli sono costati molti anni di carcere in Italia, autore del best seller Il Disubbidiente (Longanesi editore)

In ballo ci sono una montagna di soldi (centinaia di miliardi di vecchie lire), lingotti d’oro, ville in Toscana e in Costa azzurra, gestione “creativa” della legge e una colossale ingiustizia subita dai piccoli azionisti i quali fino ad ora hanno ripreso si e no il 10 per cento di quello che hanno perso. Nonostante la Corte d’appello di Milano avesse riconosciuto che oltre al risarcimento per i danni morali avevano diritto al risarcimento per i danni materiali. Tra i debitori c’erano Gelli, Umberto Ortolani, Giuseppe Ciarrapico, Adriano Bianchi, Francesco Pazienza, Luigi Mennini, Maurizio Mazzotta, Bruno Tassan Din. Pazienza era in prigione, Mazzotta era molto malato e Ortolani era morto in Brasile. Rimanevano Ciarrapico, Mennini, Bianchi Tassan Din e Gelli. “Con Ciarrapico, Mennini e Bianchi siamo in causa” dice Gianfranco Lenzini, capofila del pool di avvocati di parte civile dei piccoli risparmiatori “Tassan Din qualcosa diede e disse che avrebbe girato a noi i titoli che gli erano stati sequestrati al momento del dissequestro.
Ma, dopo la sua morte, non è successo. E siamo in causa con la famiglia. L’unico che ha pagato qualcosa, con i 230 chili di lingotti d’oro purissimo (99,90%, quello usato per la transazioni interbancarie) che gli furono trovati nelle fioriere di villa Wanda, è stato Licio Gelli. Il loro percorso non fu certo facile perché li pretendeva, in qualità di esattore per un reato fiscale, anche il Monte dei Paschi di Siena. Nel 2005, con l’oro che saliva, trovai un compratore e i miei clienti ebbero un minimo risarcimento. In cambio rinunciammo all’ipoteca su Villa Wanda che sarebbe stata messa all’asta su nostra richiesta. Nel 2005, dunque, abbiamo fatto pace con Gelli. E iniziato una linea comune”. Che potrebbe aver un effetto dirompente e disvelare patti inconfessabili. Come i due accordi segreti che sono il semaforo daltonico dei soldi. Il primo pattofu stipulato nel 1989, a Zurigo. I contraenti erano la liquidazione del Banco ambrosiano e le banche consociate estere dell’isituto di Calvi. “L’accordo” dice Lenzini “ebbe la benedizione della Banca d’Italia e prevedeva che i 100 miliardi su un conto svizzero di Licio Gelli andassero nella misura del 45% alla liquidazione dell’ambrosiano e per il 55% alle consociate estere (Banco Andino, Banco di Managua e Banco di Nassau)”. Il retroscena incredibile è che questa spartizione estero su estero si basava sul presupposto che quei 100 milioni di dollari sequestrati dalla magistratura italiana non appartenessero al banco Ambrosiano ma alle consociate estere. Che era anche la linea difensiva del Venerabile. Non solo: quell’accordo avvenne all’insaputa della magistratura italiana che, negli anni seguenti dovette arrampicarsi sui vetri per giustificarne le conseguenze.

Eppure dal Tribunale di Berna era stato segnalato ai colleghi italiani che non c’era certezza sulla provenienza di quei 100 milioni di dollari di Gelli e che quindi sarebbe stata utile una rogatoria. I magistrati elvetici precisarono anche che, invece, come risulta dalla sentenza di condanna, a pagina 50, altri 8,5 milioni di dollari provenienti dai conti di Ortolani sul conto Ubs di Gelli 525779, erano sicuramente del Banco Ambrosiano. Ma da Milano non arrivò nessuna risposta. L’accordo tra il liquidatore e le consociate, interessati entrambe a recuperare il più possibile (in Svizzera c’erano anche 20 milioni di dollari di Flavio Carboni e 50 di Bruno Tassan Din) andò in porto. Ma i tempi di attuazione rischiavano di allungarsi perché quando a febbraio del 1996 due sentenze svizzere decretarono che sia i 100 milioni di dollari che gli 8,5, cioè gli unici confiscati dalla magistratura italiana, dovevano restare in Svizzera (per onorare l’accordo “segreto” di Zurigo), Gelli fece opposizione. Secondo Lenzini fu lo stesso Antonio Fazio a mettere fretta, nel timore che potessero farsi vivi altri creditori, tra cui, appunto, i piccoli azionisti. Ed ecco il secondo accordo segreto, quello, a Lugano, del 15 aprile 1996, due mesi prima della sentenza di condanna: Gelli non si oppose e in cambio ebbe 12,5 milioni di franchi svizzeri (“casualmente” circa 8,5 milioni di dollari), il dissequestro di villa Wanda, la restituzione della villa in Costa Azzurra sequestrata perché, secondo gli investigatori, intestata a una società di comodo. Il Venerabile fu vincolato, però, alla segretezza assoluta. Nella sentenza non c’è traccia, naturalmente, di questo accordo. Anche se l’avvocato rappresentante della liquidazione ritirò la costituzione in parte civile, lasciando in campo, dunque, solo la parte civile dei piccoli azionisti, sempre in attesa dei risarcimenti per i danni materiali. Il p.m. Francesco Greco scrive: “la somma distribuita secondo gli accordi transattivi dell’escrow agent alle parti della transazione non è provento di reato dal momento che trattasi di somma sequestrata quale corpo di reato e successivamente dissequestrata, a favore dell’avente diritto Liquidazione”. L’avvocato Lenzini non usa mezzi termini a commento di questa argomentazione “salva accordi segreti”: “Pur di assecondare lo scandaloso comportamento degli organi liquidatori” scrive in una memoria “ la Procura di Milano “assolve” niente meno che Gelli definendone i 100 milioni di dollari sequestrati in Svizzera di origine non delittuosa. Come si potrà seriamente sostenere che Gelli è stato una delle cause del fallimento del Banco Ambrosiano?” E aggiunge: “Praticamente Gelli è stato condannato a 12 anni per gli 8,5 milioni. Ma non c’è traccia neanche di quelli nella sentenza di condanna”. Eppure erano gli unici sicuramente del Banco ambrosiano. Dove sono finiti? Secondo il rappresentante legale di parte civile dei piccoli azionisti se li sono spartiti anche quelli secondo la formula 45%-55%. Peccato che con una lettera del 3 giugno 1996 il presidente della seconda sezione penale della corte d’appello di Milano, Giangiacomo Della Torre, avesse ordinato all’UFP (Ufficio federale di polizia) di Berna di restituire gli 8,5 milioni di dollari Usa alle parti civili. Dunque ai piccoli azionisti, perché il liquidatore, nel frattempo si era ritirato. Un documento importante, ma che nei fascicoli non c’è più. “Però” conclude Lenzini “una copia l’abbiamo trovata all’ambasciata italiana in Svizzera. Il fatto è che Gelli avrebbe destinato quegli 8,5 milioni di dollari ai piccoli azionisti. Noi saremmo stati contenti e il capo della P2 anche perché avrebbe potuto usufruire delle attenuanti previste con la restituzione: i 12 anni sarebbero diventati 9”. Se questo scenario dovesse concludersi come auspicano i piccoli azionisti del Banco Ambrosiano, davvero un pezzetto di storia politico-finanziaria italiana sarebbe da riscrivere.
Marco Gregoretti