Il fuoristrada si ferma nel fango, a pochi metri da un falò all’aperto. Un bel fuoco dove brucia di tutto. Eppure non c’è nessuno. Il mio viaggio, qui, nella Piana di Gioia Tauro, cuore della ’ndrangheta, o dell’Istituzione, come la chiamano in Calabria, inizia con questa sensazione di tempo che si è fermato, di silenzio assoluto. Un silenzio che verrà rotto, sebbene sottovoce, da alcune ore passate con un personaggio che chiamano «uomo di pace», ovverro uno di quelli che conosce la vera storia delle ‘ndrine. Per terra, sparsi tra l’erba e le sterpaglie, ossa e teschi di vitelli e maiali. È nuvoloso. Il sentiero approssimativo, tra rovi, fango e pozzanghere, porta ai piedi di un muro di cinta. Da questa parte un cucciolo di cane accovacciato vicino a due rudimentali prese d’aria. Dall’altra coltivazioni di frutta. Percorsi pochi passi si nota un rettangolo di ferro arrugginito fissato sul terreno e seminascosto dall’erba incolta. È una botola. Basta poca forza per sollevarla. Ed entrare in un mondo misterioso: il ventre, il cuore, il bunker della ‘ndrangheta. Dove si sono nascosti latitanti inseriti nell’elenco dei trenta più pericolosi. Con me c’è una persona, un uomo a cui non faccio troppe domande. Non mi molla in questo viaggio. Non so bene se garantisce me o gli occhi e le orecchie che comunque controllano quel che faccio. Pazienza. Non è importante. «Allora signore, volete entrare li sotto? Volete fare le fotografie? Ve la sentite?». «Certo sono arrivato fin qui…». «Fate attenzione, è tutto pericolante. È crollato un pezzo di tetto».
A metà tra un appartamento e una galleria sottorranea dei vietkong. Scendo attraverso un passaggio stretto. Urto qualcosa: sono due bottiglie di champagne vuote. C’è una prima stanza con un divano letto e una cassettiera. Poi passo sotto uno stipite: mi devo chinare perchè è molto basso. Introduce nella camera da letto, con due reti attaccate, un materasso matrimoniale appoggiato alla parete, un mobile con cassetti. Appoggiati sopra il tavolo un rotolo di scottex, una bottiglia di acqua e una di vino chiuse. Nel bagno i sanitari sono ancora intatti: la carta da parati crea l’effetto mattonella di ceramica. C’è anche un secondo bagno piccolo dove sono rimasti gli attacchi per la doccia idromassaggio. In cucina sono visibili i tubi del gas. Poi: interruttori, prese per la corrente, fili penzolanti. Una vera casa alcuni metri sotto terra, a due passi da un ruscello e da una coltivazione di frutta. Dal 16 febbraio del 2005 non ci vive più nessuno. L’ultimo ad averla usata è stato Gregorio Bellocco, 50 anni, detto «Il Lupo solitario», ora detenuto in attesa «di cure per una grave forma di labirintite per cui è già stato operato» mi dice l’uomo che mi accompagna. Bellocco, capo della omonima famiglia di Rosarno, era lì dentro quando, dopo oltre dieci anni di latitanza, i Carabineri del Ros , il 16 febbraio 2005, lo hanno arrestato ricordandogli che era accusato di associazione mafiosa, omicidio e traffico di stupefacenti. Nella zona i suoi numerosi amici cantano una strofetta: «16 febbraio giorno fatale: hanno arrestato un uomo geniale». Fotografo tutto quel che riesco a fotografare, anche se è buio. Il mio accompagnatore fotografa me con una usa e getta, che poi mi omaggia. Mi mette fretta: «Sbrigatevi che non è che si può stare qui troppo tempo. Abbiamo fatto un’eccezione…».
La vita in superficie prosegue come sempre. E come sempre l’uomo di pace osserva nell’ombra. La casa dove vive è come potevo immaginarla. C’è una zona «ufficiale» e una «riservata», con un salone che si raggiunge attraverso un dedalo di corridoi. Il telegiornale racconta una notizia: «Giovanni Morabito, 24 anni, nipote del boss detto ‘U tiradrittu, ha sparato in testa alla sorella Brunetta, 32 anni, Il motivo da ricercare nella relazione sentimentale di quest’ultima con un poliziotto». L’uomo di pace ascolta in silenzio. Tanto parlano le sue smorfie. E fa: «Voi giornalisti ragionate come scrittori del nord. Ma sull’istituzione scrivete solo cose di serie “c” ». Comunque insisto un pò «Perchè sparare alla sorella?». Sorride in silenzio: «’Ndrangheta, dal greco andragathia, che vuole dire valore, coraggio. Tra i valori l’appartenenza: non si possono avere rapporti affettivi con la controparte di giustizia». Tradotto: Brunetta non doveva stare insieme a un poliziotto. Persiane tirate giù. Tende ricamate chiuse. Qualcuno, senza quasi farsene accorgere, porta tre tazzine con il caffè. Già zuccherato. Mi dico: «O glielo chiedo adesso o mai più…». Cinque mesi fa hanno ucciso durante le primarie uno dei big della sanità calabrese: Francesco Fortugno. Le indagini hanno portato ad alcuni arresti. Ma nessuno ci capisce niente. «So che indagano in tante direzioni. Anche in quelle personali: il figlio di Fortugno avrebbe messo incinta la ragazza sbagliata. Ma non basta per ucciderlo. Chissà come mai quel giorno a quell’ora nel seggio non c’era neanche un Carabiniere…». La pista politica? «Quella del trombato come mandante? No, escludo che possa portare a incaricare un killer…». E allora perchè l’hanno ucciso? «Si ricorda l’omicidio Ligato (Ludovico Ligato, presidente delle Ferrovie dello Stato ucciso davanti a casa sua in Calabria il 27 agosto 1989, ndr)? Crede che sia stato ucciso perchè non cedeva alla’ndrangheta?». Interviene un suo amico: «No: Ligato aveva favorito solo una parte. Gli accordi erano diversi. E l’hanno ucciso. E questo attiene all’onore, al tradimento dell’onore: motivo secondo l’istituzione per far cessare una vita». Dunque Fortugno come Ligato…
Ma quante curiosità ancora: proprio in un’intervista a News Pierluigi Vigna, predecessore di Pietro Grasso alla Direzione nazionale antimafia, ha detto che la ‘ndrangheta è l’organizzazione più pericolosa. «L’unico magistrato che ci capiva qualcosa di mafia era Giovanni Falcone: ha conosciuto quegli ambienti, ha vissuto in quei quartieri. Ne aveva studiato i linguaggi, le parole, i metodi… E comunque, ripeto, voi giornalisti dite cose di serie c…». Mentre mi dice che la sera sarei stato invitato a una festa privata, gli chiedo di darmi qualche assaggio di cose di serie A: «Qua non esiste la cupola. Esistono le famiglie. E ognuna fa quel che vuole. Magari si mettono d’accordo in due o tre, ma l’organizzazione non è globale e verticistica. Questo non lo dice mai nessuno, ad esempio». Certo, il discorso più ricorrente è quello della droga. I narcotrafficanti stringono accordi con le famiglie calabresi. Anzi, sembra che le’ndrine contino più dei cartelli. Poi ci sono le connessioni con il traffico di armi, il riciclaggio, le attività di copertura…«Le dico questo: la droga, la cocaina in particolare, non è considerato dall’istituzione un lavoro attivo, ma una debolezza disonorevole. Si stupirà ma è così. Le vere’ndrin e sono quelle che non si occupano di traffico di droga: forse sono la minoranza. Ma credo che sia la verità. Che fa prende appunti?». Chiudo all’istante il block notes e rimetto la penna nella tasca interna della giacca. Tanto è ora della festa. Dal bunker sotterraneo al salotto riservato. Per finire in un salone per una cena-festa in stile alta borghesia milanese o romana. A tavola l’uomo di pace parla di politica con me e con altre persone che non mi azzardo neanche per sogno a chiedere chi sono. So solo che parlano in modo molto informato. E capisco anche che non sono contenti di come hanno votato l’altra volta. Metteranno la croce su un altro schieramento. Intorno gli invitati, ragazzi di vent’anni e persone vicine alla pensione, finita la cena, ballano e giocano al karaoke. Mi sembra di essere in un film. E mi dico: si può passare senza difficoltà da un rifugio sotterraneo al salotto buono. Alla faccia degli stereotipi.
Marco Gregoretti