Anche il reporter Andrea Rocchelli, nel 2014, in Ucraina, diede la propria vita per raccontarci la guerra nel Donbass

Andrea Rocchelli
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“Noi che per la verità daremmo anche la vita”, era il titolo di un articolo che curai nel luglio 2019 nel quinto numero di Nuova Cronaca, un mensile cartaceo in edicola che dirigevo (Trovate qui sotto il testo e, se volete la versione completa, cliccate su “64-71 giornalisti morti”). Sono le storie dei colleghi morti sul campo. Da Peppino Impastato a Ilaria Alpi, da Andrea Casalegno a Mauro del Mauro, da Mauro Rostagno a Maria Grazia Cutuli. Si parla anche di Andrea Rocchelli, il reporter di 30 anni ucciso in Ucraina, a Sloviansk Raion, da un colpo di mortaio presumibilmente esploso da Vitaly Markiv un giovane miliziano italo ucraino, il 24 maggio 2014. L’ordine dei giornalisti si spese affinché il colpevole, pochi giorni prima dell’uscita di Nuova Cronaca, fosse condannato dal Tribunale di Pavia. Furono proprio le foto scattate da Rocchelli a dimostrare che il tragico fatto fu un omicidio e non un danno collaterale. Sebbene sia chiaro a me chi sia il colpevole oggi dell’invasione di uno Stato sovrano, e non aderendo in nessun modo alla narrazione “putiniana e putinista”, non bisogna dimenticare questo giovane giornalista che ha lasciato sul campo la propria vita per documentare quello che stava succedendo. Glielo dobbiamo in nome della verità e del giornalismo onesto
Marco Gregoretti

REPORTER EROI
NUOVACRONACA
Rispettare il lettore. Costi quel che
costi. È il testamento dei cronisti che
non ci sono più. Ecco le loro storie
e l’intervista a Fausto Biloslavo
NOI, che per la VERITÀ
daremmo anche la VITA
È assai fastidioso per chi crede nel valore e
nell’importanza del mestiere del giornalista
confrontarsi con pregiudizi e con luoghi comuni
sul nostro presunto fancazzismo e sui nostri
favoleggiati lauti guadagni. Eh no! Un par de
ciufoli. Portiamo, piuttosto, il peso della responsabilità che
deriva da una professione che si basa su un patto: quello
con il lettore, con il eelespettatore, con il radioascoltatore,
con il navigatore internettiano. Chi maneggia
notizie, chi informa ha un gigantesco potere che resta
intatto e limpido se mantiene il più posssibile la schiena
dritta. Che, al netto di facili moralismi, significa fondalmentanente
una cosa: raccontare al pubblico fatti
che si avvicinino il più possibile al percorso di ricerca
della verità. E questo facciamo noi giornalisti. Tutti o
quasi. E lo facciamo prima pensando al lavoro e poi al
guadagno. Non è da tutti. Con alcuni casi, forse sconosiuti
ai più, di chi meglio cerca di fare il giornalista
di Marco Gregoretti meno incassa a fine mese. La libertà spesso ha anche
un costo finanziario. Per non parlare dei prezzi personali,
emotivi, famigliari, giudiziari, sentimentali che si
pagano. Con l’apice del mettere a disposizione la propria
vita, o il rischio di perderla, per non violare quel
patto con di cui ho fatto cenno sopra. Quindi, per
favore, non cedete, non cediamo, a facili slogan sulla
bella vita del giornalista. Farlo bene significa fatica e
fatica e ancora fatica. Qui, in queste pagine, chiosate
da una bella intervista all’inviato di guerra Fausto
Biloslavo, si racconta di dodici colleghe e colleghi che
sono rimasti sul campo per fare inchieste sulla camorra,
sulla mafia, per documentare una guerra inutile,
le mille facce del terrorismo. Uomini e donne di tutte
le età che, in molti casi, aspettano ancora almeno una
giustizia postuma ottenuta per legge, un risarcimento
morale per quel che hanno fatto e ci hanno lasciato, un
applauso a scena aperta. Senza di loro saremmo stati più
poveri di verità e di conoscenza. 
64 NUOVA CRONACA
NUOVACRONACA
Caduti sul campo
per raccontarci tutto a cura di
Yuri Benaglio
e Luca Caglio
Le inchieste spezzate di dodici giornalisti coraggiosi
Ilaria Alpi (Roma, 24 maggio 1961 – Mogadiscio, 20 marzo 1994)
Le prime collaborazioni giornalistiche dal Cairo per L’Unità, fino all’assunzione in Rai.
Un’ascesa inarrestabile, quella di Ilaria Alpi, interrotta a soli trentatré anni quando fu
uccisa in prossimità dell’ambasciata italiana di Mogadiscio con una colpo di pistola
sparato a distanza ravvicinata. Si trovava in Somalia per seguire per conto del TG3
la missione di pace Restore Hope-Ibis. Non si sono mai trovati ne’ gli esecutori ne’
i mandanti dell’omicidio. Per 17 anni è stato in carcere, in Italia, Omar Hashi un
cittadino somalo innocente. Ilaria stava investigando sugli stupri perpetarti dai militari
italiani, sui taffici di rifiuti tossici nel Bosaso a bordo delle navi dell’ammiraglio Mogne
e, con ogni probabilità, su cellule di terrorismo fondamentalista. I suoi appunti e a sua
macchina fotografica sono spariti dlla nave che trasportava la salma in Italia.
Carlo Casalegno (Torino, 15 febbraio 1916 – Torino, 29 novembre 1977)
Fu ucciso nella sua Torino, Carlo Casalegno, da quasi dieci anni vicedirettore de La
Stampa. Dalle sue pagine invitava tutti a non sottovalutare le minacce del terrorismo,
in un clima infuocato come quello degli anni di piombo. Il 16 novembre 1977, di ritorno
a casa in corso Umberto 54 alle 13.55, fu vittima di un agguato da parte di un gruppo
di fuoco della colonna torinese delle Brigate Rosse: quattro colpi in volto, con la sua
pistola Nagant M1895, non bastarono a Raffaele Fiore per piegarlo. Carlo morirà, dopo
tredici giorni di agonia, solo il 29 novembre all’ospedale Le Molinette del capoluogo
piemontese. Fu il primo giornalista ucciso dalle Br.
Raffaele Ciriello (Venosa, 2 agosto 1959 – Ramallah, 13 marzo 2002)
Già fotoreporter di guerra freelance in Somalia nel 1993 e collaboratore del Corriere
della Sera, Raffaele Ciriello resta ucciso a Ramallah, nella Palestina occupata, da
sei colpi (diretti all’addome) di un carro armato israeliano il 13 marzo 2002: stava
documentando un’altra violenta giornata di scontri iniziata all’alba con l’avanzata
dell’esercito israeliano. Fu il primo giornalista italiano caduto nel corso della seconda
Intifada, rivolta esplosa a Gerusalemme nel 2000 e poi dilagata. Vano il tentativo
italiano di ottenere i nomi dell’equipaggio del carro: al rifiuto di Israele, il procedimento
penale verrà archiviato.
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REPORTER EROI
NUOVACRONACA
Sentiva il richiamo della “terra che brucia”, dei posti contesi, sventrati dalle
bombe. Bisognava essere coraggiosi, e Maria Grazia Cutuli lo era, pronta a
raccontare attraverso le pagine del Corriere della sera lo spettacolo della
guerra. Inchieste mosse dall’amore per il mestiere e per la politica estera. In
Afghanistan, nel 2001, gli americani stavano bersagliando Kabul in seguito
agli attacchi terroristici dell’11 settembre; l’obiettivo erano i talebani di
Al Qaeda e il loro capo Osama bin Laden. Il 19 novembre, mentre si stava
recando con altri colleghi verso la capitale a bordo di un’auto, otto uomini
armati bloccano il suo convoglio: sparano e uccidono quattro corrispondenti,
compresa Maria Grazia. Sono stati condannati a 24 anni i due afgani accusati
del suo omicidio.
Giornalista presso L’Ora, fu rapito da Cosa Nostra mentre si apprestava
a rincasare. Il suo corpo non venne mai ritrovato. Nel processo, che vide
imputato esclusivamente Totò Riina, l’accusa sostenne che De Mauro “si era
spinto troppo oltre nella sua ricerca della verità sulle ultime ore di Enrico
Mattei”. Quest’ultimo, allora presidente dell’Eni, morì il 27 ottobre 1962 a
Bascapè in un misterioso incidente aereo; la regia del presunto sabotaggio del
mezzo avrebbe coinvolto non solo la mafia ma anche importanti personalità
vicine alla politica e facenti parte di apparati italiani. Il cronista era quasi
certamente in possesso della verità, quindi pronto a divulgare le prove circa la
natura dolosa della tragedia. Ciò avrebbe avuto effetti devastanti sugli equilibri
politici. Nessuno è stato condannato.
Era l’operatore di fiducia di Illaria Alpi e sono stati uccisi insieme. Miran
morì sul colpo. Nom si parla molto di Hrovatin triestino, discreto come la sua
famiglia. Certo è che la sua importanza sarebbe stata strategica per indagini
serie che nessuno ha mai voluto fare. Lui vedeva, puntava e riprendeva
quello che Ilaria apputava nei block notes spariti. Era un vero reporter che
probabilmente ha visto troppo: nelle videocassette di cui mai nessuno ha
chiesto conto c’erano con ogni probabilità anche i militari che scaricavano i
fusti tossici, alcuni contenenti materiale radioattivo, dalle navi nel Bosaso.
Maria Grazia Cutuli (Catania, 26 ottobre 1962 – Sarobi, 19 novembre 2001)
Mauro De Mauro (Foggia, 6 settembre 1921 – Palermo, 16 settembre 1970)
Miran Hrovatin (Trieste, 11 settembre 1949 – Mogadiscio, 20 marzo 1994)
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NUOVACRONACA
Era ancora vivo, Peppino Impastato, quando la sua testa giaceva stordita
sui binari della ferrovia di Cinisi, in provincia di Palermo, nella notte tra l’8
e il 9 maggio 1978. Il giornalista, appena trentenne, fu ucciso dalla mafia –
da lui più volte sbeffeggiata e denunciata – dopo vari avvertimenti rimasti
inascoltati. Si cercò di distruggere la sua immagine inscenando un finto
suicidio, avallando la tesi dell’attentato terrorista e facendo leva sul quasi
contemporaneo ritrovamento del corpo del più altisonante Aldo Moro. Ma
la voce di Peppino Impastato, anche grazie al libro e al film I cento passi di
Marco Tullio Giordana, risuona ancora oggi più viva che mai.

Fotoreporter freelance, aveva deciso di documentare i danni della guerra in
Donbass sulla popolazione civile. Un conflitto che vede tuttora fronteggiarsi
separatisti ucraini, che auspicano l’annessione della regione alla Russia, e
l’esercito governativo di Kiev che ne rivendica il controllo. Rocchelli è caduto
a 30 anni per un colpo di mortaio che, stando agli atti del processo presso
il tribunale di Pavia, sarebbe stato esploso da Vitaly Markiv, ragazzo italoucraino
ventinovenne che si era arruolato tra le milizie nazionali, condannato
venerdì 12 luglio a 24 anni di carcere, nonostante dal pubblico ministero ne
fossero stati chiesti 17. Quello che in un primo tempo è stato fatto passare
per un “danno collaterale” degli scontri, oggi ha i contorni di un omicidio. Lo
testimoniano alcune foto scattate da Andrea mentre si trovava sotto attacco.
A distanza di trentuno anni dalla misteriosa morte del giornalista e sociologo
Mauro Rostagno, avvenuta a Valderice (Trapani) il 26 settembre del 1988,
il gup del Tribunale di Trapani ha rinviato a giudizio negli scorsi mesi dieci
persone accusate di aver reso falsa testimonianza durante il processo di primo
grado ai giudici della Corte d’Assise di Trapani. Rostagno fu ucciso all’interno
della sua auto, una Fiat Duna DS bianca, da alcuni sicari con un fucile a
pompa calibro 12 e una pistola calibro 38. La mafia – il giornalista indagava
su Cosa Nostra – fu la prima pista, poi confermata al processo, ma il quadro
fatto di depistaggi e altri presunti collegamenti è ancora torbido.
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Peppino Impastato (Cinisi, 5 gennaio 1948 – Cinisi, 9 maggio 1978)
Andrea Rocchelli (Pavia. 27 settembre 1983 – Sloviansk Raion, 24 maggio 2014)
Mauro Rostagno (Torino, 6 marzo 1942 – Lenzi di Valderice, 26 settembre 1988)
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Inviato internazionale di Radio Radicale, Antonio Russo ha realizzato
corrispondenze da Algeria, Burundi, Ruanda, Ucraina, Colombia e Sarajevo.
Il suo corpo fu ritrovato con segni di tortura nei pressi della città di Tbilisi
(Georgia), ai bordi di una stradina di campagna, il 16 ottobre del 2000. Russo
stava documentando la guerra in Cecenia: la sua abitazione fu ritrovata
in soqquadro e tutto il materiale registrato (telefono satellitare, computer,
videocamera) sparito nel nulla. Materiale che stava progressivamente
giungendo in Italia e che testimoniava l’utilizzo di violenza – anche con armi
illegali – dei reparti militari russi ai danni dei ceceni (bambini inclusi).
Scriveva di Camorra, denunciando il malaffare insito nel suo territorio,
indagando sul contrabbando di sigarette e sul traffico di stupefacenti. Non è
stato reticente nemmeno quando, per Il Mattino, doveva descrivere il connubio
politica-mafia nell’ambito dell’assegnazione degli appalti post terremoto a
Torre Annunziata, dove era corrispondente. Sfornava una notizia dopo l’altra,
tirava in ballo il boss Valentino Gionta e le alleanze del clan Nuvoletta con i
corleonesi: la gente doveva sapere. Giancarlo Siani era una penna scomoda
sebbene avesse solo 26 anni, e una sera ha pagato la sua dedizione con la
vita, sorpreso da otto colpi di pistola mentre era a bordo della sua auto. La
giustizia ha condannato all’ergastolo i capi del clan Nuvoletta e gli esecutori
materiali del delitto.
Aveva solo 33 anni, Walter Tobagi, quando fu assassinato dalla Brigata XXVIII
marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra. Dedicò tanto impegno alle
vicende legate al terrorismo e si interessò ai primi covi scoperti a Milano
approfondendo in seguito le sue indagini al Corriere della Sera. Cinque colpi
di pistola, esplosi il 28 maggio 1980 alle ore 11 in via Salaino, nel capoluogo
lombardo, furono letali. A seguire un maxi processo a doppia direzione: a
Marco Barbone (il leader del gruppo) furono inflitti solo otto anni (mai scontati)
in quanto immediato collaboratore di giustizia. Una beffa, per un giornalistasindacalista
a cui oggi è anche dedicata una scuola di giornalismo a Milano.
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Antonio Russo (Francavilla al Mare, 3 giugno 1960 – Tbilisi, 16 ottobre 2000)
Giancarlo Siani (Napoli, 19 settembre 1959 – Napoli, 23 settembre 1985)
Walter Tobagi (Spoleto, 18 marzo 1947 – Milano, 28 maggio 1980)
NUOVACRONACA
“Mi sono salvato.
Ma tanti amici sono morti.
Almerigo, IIaria, Maria Grazia…”
Parla Fausto Biloslavo. E il racconto
della guerra diventa pura umanità
La storia di Fausto Biloslavo non ha nulla da invidiare
a quelle dei personaggi nati dalla fantasia di
Hugo Pratt, che da bambino lo accompagnavano
nei suoi sogni d’avventura. Triestino, classe 1961,
puntuale divulgatore della follia comunista di Tito
e del dramma delle Foibe, parte giovanissimo per raccontare il
conflitto afghano. Da allora non si è più fermato, nonostante i
pericoli e la morte di tanti colleghi. Nel 1987 viene tenuto prigioniero
per sette mesi a Kabul. Non molto tempo dopo torna
in Afghanistan, dove un camion militare lo travolge. Sembra
spacciato, ma si riprende. In tanti anni di attività ha vissuto l’evoluzione
del reportage, e per questo è avvincente e doveroso
scotare, scrivere e leggere il acconto del suo lavoro.
Come ha iniziato fare il reporter di guerra? È stato
un caso o era da sempre una tua aspirazione?
È stata la mia aspirazione da sempre, da quando leggevo Corto
Maltese e sognavo di girare il mondo. Qualche tempo più
tardi con altri due pazzi triestini come me, (Albatross Press con
Gian Micalessin e Almerigo Glirz Ndr), ho fondato un’agenzia
e sono partito per l’Afghanistan. Era il 1983, Vasco Rossi
aveva portato a Sanremo Vita Spericolata. Cantavo: “Voglio
una vita spericolata \ voglio una vita come quella dei film” e
alla fine l’ho avuta.
di Chiara Spallino
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TRA I
MARINES
Biloslavo in
Afghanistan nell’estate
del 2008, in pattuglia
con i marines
REPORTER EROI
NUOVACRONACA
Sono più di 35 anni che racconta i conflitti in prima
linea. Come è cambiato il mestiere del reporter?
Ho avuto la grandissima fortuna di vivere in prima persona
una vera rivoluzione copernicana nel mondo del reportage
di guerra. Negli anni ‘80 si partiva ad esempio per la guerra
civile in Angola con l’Olivetti 32, una cinepresa e una reflex
con il rullino. Si è passati al computer portatile e ai social. In
Crimea quando sono arrivati i Russi ero fortunatamente là e
ho battuto la BBC con un tweet! All’evoluzione dei mezzi si è
accompagnata una involuzione nei modi di lavorare: dall’11
settembre è quasi impossibile raccontare una storia a 360 gradi,
è impensabile andare tra le fila dell’Isis. Bene che ti vada
diventeresti carne per un riscatto.
Come è percepito oggi il lavoro del giornalista di
guerra dal grande pubblico?
In Italia tutti i media hanno avuto un crollo di credibilità. Forse
chi rischia la propria pelle ha mantenuto un minimo di
fiducia. Ma siamo un po’ gli ultimi dei Mohicani e i giovani
hanno poche possibilità perché i giornali non hanno molte
risorse.
Quali sono i lavori di cui sei più orgoglioso?
Nel mio libro Guerra Guerra Guerra parlo di un elemento
che mi ha aiutato in tutti i miei lavori migliori: è il fattore C,
diciamo per non essere volgari il fattore “fondoschiena”. Un
esempio è l’unica foto di Yasser Arafat che partiva da Beirut.
Non sapevo cosa fare, era il mio primissimo reportage. Ho
aperto la portiera di una macchina, mi sono trovato davanti
un kalashnikov e un omone. In un inglese maccheronico dico:
“Sono un giornalista italiano democratico!” e lui mi risponde
in accento bolognese: “Ho studiato a Bologna, gli italiani
sono simpatici, salta su!”. E così mi sono trovato a scattare
quella foto.
Dopo tutti questi anni di lavoro, la guerra la colpisce
ancora?
Non ho mai avuto un’assuefazione nel raccontare le guerre.
Ogni volta che torno a casa cerco di prendere il treno che
arriva a Trieste passando dalla costa: sono luoghi bellissimi, lì
rivedo i momenti tragici e mi rendo conto di quanto siamo fortunati
a vivere in pace.
Lavorava a stretto contatto con l’inviato Almerigo
Grilz: come si va avanti a fare il giornalista dopo che
tanti colleghi e amici sono morti sul campo?
Almerigo Grilz era un amico fraterno. Continuavo a pensare
che era stato ucciso proprio una delle poche volte che non era
con me. Ho perso altre persone, come Ilaria Alpi. La chiamavo
“la voce di Tele Kabul” e lei “il portavoce della CIA”. Poi
Maria Grazia Cutuli: quando gli americani stavano avanzando
verso Kabul abbiamo fatto una stupida scommessa “Vediamo
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CAMBIAMENTI
I ferri del mestiere del
reporter di guerra si
evolvono: qui vediamo
Biloslavo in Bosnia
con una candela e una
macchina da scrivere.
Era il 1993
LA FINE
DI SADDAM
Biloslavo ha seguito
le truppe per
documentare la caduta
di Saddam Hussein.
Qui, in Iraq nel 2003
IN PRIMA
LINEA
Nel 2003 durante
l’attacco alleato a
Bassora, in Iraq
NUOVACRONACA
chi arriva prima a Kabul”. Sono arrivato prima io, ma avrei
preferito un milione di volte perdere. In quella strada verso Kabul
è stata trucidata. Tutti loro sono al mio fianco, ho sempre
presente non solo la loro amicizia ma anche come sono morti.
Imparare dai loro errori mi ha aiutato a sopravvivere.
Ha partecipato alla fondazione di InsideOver, il primo
crowdfunding italiano per i reportage. Il futuro
del giornalismo passa anche per questi nuovi mezzi?
Il crowdfunding è una piccola ma importante via d’uscita. La
scommessa è stata coinvolgere nostri sostenitori. Abbiamo creato
un rapporto diretto con il singolo lettore, che diventa partecipe
della nostra avventura.. 
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SENZA PAURA
Nel 2006 è ritornato in
Iraq per raccontare il
potere del Califfato e la
situazione dei civili
RECORD
Biloslavo è stato il primo italiano a
girare un reportage come aggregato
dell’esercito afghano

64-71 giornalisti morti