Archivio di Greg. Facile fare i giustizialisti con le manette degli altri! Dalla perdita di identità al dito nel culo per vedere se nascondi la droga. Che cosa succede(va) all’anima e al corpo delle persone la prima volta che mettono piede in carcere. Un articolo che scrissi 27 anni fa, il 17 dicembre 1996, quando lavoravo a Panorama. Penso che prima di straparlare di 41 bis occorra fare qualche riflessione. E chiedersi: “È davvero escluso che possa capitare anche a me?”

Può capitare a tutti. Quindi non auguriamo il carcere a ogni piè sospinto, possibilmente. Immagini di repertorio
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DIETRO LE SBARRE DALLO SHOCK DELLE MANETTE ALL’ INGRESSO IN PRIGIONE: TRE STORIE

POI TI CHIUDONO IL PORTONE ALLE SPALLE …

Testata Panorama
Data Pubbl. 12/12/1996
Numero 0049
Numero Pag. 0047
Sezione STORIA DELLA SETTIMANA
Occhiello DIETRO LE SBARRE DALLO SHOCK DELLE MANETTE ALL’ INGRESSO IN PRIGIONE: TRE STORIE
Titolo POI TI CHIUDONO IL PORTONE ALLE SPALLE …
Autore MARCO GREGORETTI
Testo Il racconto è un ritornello martellante, drammatico: quando ti prendono le impronte digitali, quando ti fanno le foto di fronte e di profilo, quella perquisizione corporale. E poi la visita medica, le lastre al torace, lo psicologo… Ogni carcerato, anche dopo tanti anni, ricorda fotograficamente quella routine, una specie di rito di spersonalizzazione che si consuma tra rumor di timbri e il silenzio di un ambiente isolato dal mondo. Di quei momenti che segnano l’ ingresso in carcere c’ è chi non dimentica il clangore del cancello di ferro che si chiude dietro le spalle. C’ è chi ancora adesso si sveglia in preda all’ incubo del tintinnio delle chiavi la prima notte in cella. Qualcuno, arrestato mentre rientrava a casa in macchina, all’ inizio credeva di sognare. Altri, prelevati in piena notte, ricordano la delusione per aver sperato che una magica telefonata li tirasse fuori prima ancora di entrare. Per tutti è uguale l’ angoscia delle luci e dei rumori del primo giorno. E della prima notte. Sull’ esperienza del carcere, sempre confinata nel dramma privato, a differenza della pubblicità data alle accuse in tante inchieste degli ultimi anni, Panorama ha raccolto tre storie. Sono di persone che stanno cercando di rifarsi una vita. Per questo sono tutelate dall’ anonimato. Isolamento e mazzate Giorgio C., 50 anni. Prima di portarlo nel carcere di Treviso, accusato per traffico di 22 grammi di cocaina, in questura gli hanno preso 72 volte le impronte di tutte le dita. “Settantadue? Come è possibile?”. “Forse servivano a tutti quelli che mi hanno arrestato: carabinieri, polizia, guardia di finanza…”. Il portone della galera per lui si è spalancato alle 10.30 dell’ 11 novembre di cinque anni fa. “Sentivo tutte le sbarre con comando elettronico che si chiudevano dietro di me. Alla fine sono sceso dalla volante. Mi hanno di nuovo preso le impronte digitali e hanno scattato sei foto a mezzo busto mettendomi in mano un cartello con un numero. Quello delle foto è stato l’ ultimo flash. Poi il buio. Totale. “Alle 11.30 ero già in uno scantinato. La cella d’ isolamento, dove si dorme per terra. Ci sono stato sei mesi e non sapevo mai se era giorno o notte. L’ unica faccia che vedevo era quella di una guardia che mi portava la brodaglia calda. Quelli che ogni tanto venivano a darmi le mazzate, e che mazzate!, avevano i volti incappucciati. Quando mi hanno tolto dall’ isolamento pesavo la metà: da 110 chili ero passato a 55. “Le mazzate non sono finite. Volevo denunciare le guardie, ma non potevo perché finché non guarivo mi impedivano qualsiasi contatto con i miei parenti. E quando stavo meglio non potevo più dimostrarlo. Però almeno la mattina c’ era l’ ora d’ aria e si poteva parlare, facendo attenzione a rispettare il codice d’ onore, per esempio salutando il detenuto più rispettato. Altrimenti si rischiava la coltellata sotto la doccia. Era possibile comprare cibi e sigarette dall’ esterno, anche se le guardie si tenevano il 20-25 per cento dei soldi”. Giorgio ha girato le prigioni di mezza Italia, con una breve parentesi anche in un manicomio. E’ stato nel supercarcere di Vicenza, dove l’ ora d’ aria si trascorreva in un cunicolo largo tre metri e lungo 10, e in quello di San Gimignano pieno di telecamere che controllano tutto. A Venezia, dove si mangiava bene “ma c’ erano topi grandi come gatti”. Invece Orvieto è “la manna, il miglior carcere. Tutti gentili e umani. La mia cella era vicina a quella di Walter Armanini. Si era infuriato perché quando Demetra Hampton lo aveva lasciato avevamo tappezzato anche le docce con i poster della sua ex fidanzata seminuda”. Fornelletti a San Vittore Massimo O. è accusato di concorso in omicidio. Ha un attimo di esitazione, diventa tutto rosso. Cosa succede? “No, è che mi è venuta in mente la perquisizione a San Vittore. Prima ho lasciato tutto quello che avevo, ho svuotato le tasche. Poi…”. Poi? “Mi hanno fatto spogliare e mi hanno perquisito nudo. E mica stando dritto”. E’ una delle procedure nel reparto “Nuovi giunti”. Dove si va dal medico e dallo psicologo che decide il regime carcerario. Infine una guardia “ti porta a prendere un cucchiaio, una forchetta, dei coltelli di plastica, un bicchiere, due piatti di ferro, le lenzuola e un cuscino. Oramai sei nel tuo raggio: hai sentito i due cancelli richiudersi dietro di te. E hai perso ogni speranza”. Sono passate diverse ore da quando, alle 11, Massimo era arrivato all’ ufficio matricola: “Una stanza squallida dove le guardie mi hanno scattato due Polaroid e preso i dati anagrafici e le impronte delle 10 dita”. Gli riviene in mente quella frase urlatagli da un poliziotto: “Sei nei casini, rischi 28 anni!”. Il cibo per Massimo è stato una sorta di orologio: pasti alle 11.30 e alle 17. “Ma a pranzo non mangia nessuno. La carne si lava accuratamente, si snerva e si fa bollire con i pelati fino a sera”. Con questo ragù galeotto a San Vittore si condisce la pasta della cena. Cucinata in proprio: ogni cella ha un fornelletto a gas. “Strano” osserva Massimo “ci tolgono stringhe e coltelli di metallo temendo ferimenti e ci lasciano i fornelletti”. Le ore d’ aria a San Vittore sono quattro, due alla mattina, dalle 9 alle 11, e due il pomeriggio, dalle 13 alle 15. “Alle 17 un gruppetto di guardie passa e chiude a chiave la porta a sbarre della cella. La seconda, quella blindata, la chiudono a mezzanotte”. Il ricordo più impresso nella mente di Massimo sono i rumori della prigione. “La tv sottofondo dalla mattina alle nove alla sera tardi. Le chiavi. E soprattutto quell’ incessante den, den”. Den, den? “Ma sì, all’ improvviso le guardie arrivano in cella, in tutte le celle, e con un tondino di ferro controllano che le sbarre di finestre e porte non siano state segate”. Persino i colloqui con i parenti per Massimo si perdono “in un casino frastornante”. “Dentro una stanza, adatta per dieci persone, ci si trova in 24. Sei detenuti e quattro familiari a testa, divisi da un vetro antiproiettile alto 60 centimetri. Ma a che cosa serve?”. Il rito della perquisizione Mimmo R., corruzione. Carcere delle Vallette, Torino. “Mi hanno contestato un reato e, senza interrogarmi, mi hanno portato prima in caserma poi dentro. La perquisizione non la dimenticherò mai: non solo un dito nel sedere per vedere se avevo droga o altro, ma anche un accurato esame dell’ orifizio del pene. Che si ripeteva ogni volta che ricevevo una visita”. Mimmo era stato convocato in procura e ci era andato a piedi: non immaginava certo che da lì a poco la sua vita sarebbe improvvisamente cambiata. “Non avevo con me neanche le sigarette. Sono riuscito a fumarne una cinque giorni dopo”. La prima cella di Mimmo, nel reparto “Nuovi giunti”, era di tre metri per due con i letti a castello. “Ci dormivamo in tre, io, un iraniano pazzo e un pedofilo. E il cesso era un buco in mezzo alla stanza. Quando sono arrivato non avevo nulla con me, quindi sono stato cinque giorni con la stessa roba addosso. E non sono andato a fare la doccia: come minimo mi avrebbero sodomizzato. Mi barcamenavo come potevo in un linguaggio che non conoscevo, dove i reali custodi dell’ ordine sono i detenuti stessi e dove ognuno può essere un confidente. Quindi: occhio a come parli, mi sono detto, sennò qui sono schiaffoni”. Poi è stato trasferito nella cella 76, insieme a un carcerato in attesa di essere processato per furto. Una specie di Arsenio Lupin. “Il suo hobby era quello di rubare diamanti dalle vetrine e starsene in Costa azzurra a fare la bella vita. Mi ha insegnato a rompere una vetrata antiproiettile”. Mimmo ha avuto una fedele compagna: “L’ angoscia di stare chiuso e blindato dalle grate e dalla porta di ferro con uno sconosciuto che non sai bene cosa potrebbe farti mentre dormi”. L’ ha combattuta con uno stratagemma. “Ho creato un angelo custode. Mi guardavo dall’ alto e mi dicevo: quello non sono io. E’ un’ altra persona, diamogli buoni consigli. Così penso di avere evitato fesserie”.