“Senza counter-terrorism non si vince”. Parla una donna ufficiale dell’antiterrorismo iracheno

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Ecco la lucida e realistica (e molto riservata) analisi che mi ha fatto avere una donna che combatte contro Isis tutti i giorni, sul campo. È un ufficiale dell’antiterrorismo iracheno, giovane, preparata e determinata. Una Zerévani. Le ho chiesto se potevo pubblicarla integralmente. Per ovvie ragioni non riporto il nome dell’autrice.
(MG)

“Alcune considerazioni personali sui fatti di Barcellona, in riferimento soprattutto alla marea di commenti che si sono sprecati sui media e social network. Sugli attacchi terroristici di questo genere si è già detto tutto, molto, troppo: ne è derivata una cultura popolare interpretativa che oscilla dal comprensibile sdegno, con una quasi immediata rassegnazione, al cinismo del freddo calcolo di vittime per cui, tutto sommato, “è andata meglio di altre volte”. Finché quest’ultima considerazione rimane confinata a una fetta dell’opinione pubblica, può essere triste ma il cinismo fa parte dei riti collettivi di esorcizzazione del fenomeno come, di tutt’altra natura ovviamente, i cortei e i cartelli “je suis…”. Molto più preoccupante, tuttavia, e a mio avviso, quando questo approccio è manifesto in esperti: non si tratta di condannare il distacco o la freddezza nell’analizzare quanto accaduto – ci sta, fa parte del nostro lavoro, non potrebbe essere altrimenti – ma di constatare la non adeguata conoscenza e consapevolezza di quanto accade, da cui un approccio errato che porta a conclusioni pericolose. Ma andiamo con ordine.

Si è detto che l’azione terroristica, soprattutto se condotta con quelle modalità tatticamente povere e strategicamente inefficaci, è segno di debolezza del gruppo ispiratore, in questo caso lo Stato Islamico (IS) che ha “rivendicato” l’attentato: si tratterebbe quindi dell’ultimo sussulto di un organismo moribondo. Questo ragionamento, tuttavia, vale quando l’atto terroristico viene fatto in prossimità del campo di battaglia, in questo caso Iraq o Siria. La logica infatti è “devo compattare le mie truppe; devo far vedere che siamo in grado di agire e far agire, per cui colpisco”. Da qui gli attacchi (per lo più) suicidi su obiettivi precisi e con il massimo di vittime. Le azioni, infatti, non sono mai avventate e contro obiettivi generici: il kamikaze, poi, non è segno di debolezza, ma solo strumento più efficace di sterminio.
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Al di fuori dell’area bellica, l’assunto che l’atto terroristico è dimostrazione di debolezza vale solo se l’ordine di colpire quel luogo e soprattutto in quel preciso momento sia partito direttamente dalla leadership dell’IS, o se il commando (o parte di esso) fosse arrivato dalla Siria o Iraq. Per ora ciò è stato dimostrato solo per Parigi e Bruxelles. E non valgono più i giudizi espressi allora che quegli atti servivano a dimostrare capacità operative dell’IS oltre i confini del Medio Oriente. L’aumento esponenziale delle diserzioni interne dimostra che i suoi combattenti hanno coscienza della disfatta e gli attentati fuori-area, quand’anche ne venissero a conoscenza i soldati del Califfo, non colmano più la totale perdita di fascinazione alla causa.

L’IS, però, è anche altro: è soprattutto propaganda, e ha fatto della comunicazione il suo principale strumento di reclutamento ed azione; è nato,cresciuto e prosperato grazie alla propaganda, soprattutto di atti violenti. E di questi atti, anche se limitati (un solo uomo armato di coltello) come quelli a Turku (Finlandia) o Surgut (Siberia), se ne appropria immediatamente perché sono propaganda del tutto gratuita che crea affiliazione, sprona alla radicalizzazione giovani che, ormai l’abbiamo ampiamente capito, smanettano con facilità nel web e vi trovano risposte a frustrazioni personali o generazionali. Morire da martiri o soldati dell’IS li riscatta, a loro perverso avviso, agli occhi della loro comunità.

La cellula di Barcellona, con la guida “spirituale” di un iman, era composta da giovani, per lo più imparentati e amici, non certo ferventi religiosi ma men che mai integrati, come invece vanno ripetendo i media: preferisco, infatti, in questo caso considerarli solo border-line, ossia facili alla radicalizzazione di qualsiasi ideologia, colore di bandiera ed obiettivo. Nel loro percorso hanno incontrato un iman con devianza radicale, e questo è bastato. Quindi, potenziali radicali islamizzati, e non islamici radicali.
E qui fa già una prima importante differenza nel capire il fenomeno e nel contrastarlo in quel particolare ambiente, ossia la regione della Catalogna. Ogni atto terroristico va, infatti, contestualizzato e mai generalizzato. Ciascun atto ha una storia che, a differenza della guerra tradizionale di cui si hanno chiari fin dall’inizio protagonisti, obiettivi, strategie e tattiche, si spiega solo a indagini concluse, ripercorrendo storie individuali dei terroristi, legami, contatti e così via, da cui trarre insegnamenti e cercare di prevenirli in futuro. E’ anche per questo che non si deve parlare di lotta al terrorismo come guerra asimmetrica: si può condurre una guerra che vede asimmetria per mezzi e forze impiegate contro forze di insorgenza (in questo caso l’IS in Siria e Iraq) che usano anche il terrorismo, ma sono soprattutto e a tutti gli effetti forze combattenti.
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La prevenzione degli atti terroristici al di fuori di quei campi di battaglia, come in questo caso appunto in Europa, è quindi un lavoro immenso che impone una conoscenza a innumerevoli livelli e contesti: già si è detto su intelligence preventiva, controllo del territorio, condivisione delle informazioni fra organismi investigativi, etc etc, a cui però si deve aggiungere quella di counter-terrorism, termine spesso tradotto limitatamente con anti-terrorismo: counter-terrorism – nell’eccezione tipicamente anglosassone – è, invece, qualcosa di più, ossia il comparto multidisciplinare che studia e aiuta a comprendere agli addetti alla sicurezza di una nazione i fenomeni internazionali, ideologici, sociali, economici e comportamentali che possono mettere a rischio una nazione, da cui, poi, i provvedimenti propri dell’anti-terrorismo. I due vanno quindi a braccetto, ma a condurre le danze è – o dovrebbe essere – il counter-terrorism. Ebbene, sono dell’idea che solo una profonda cultura di counter-terrorism, da cui una solida intelligence preventiva, possa aiutare a eliminare il rischio di attentati come quelli di questi giorni. Siamo ancora molto, ma molto lontani da questo obiettivo, e lo dimostrano i commenti della marea di esperti e colleghi che furoreggiano sui media. L’approccio dovrebbe essere esplicativo ma, invece, è solo e sempre di questa parte di mondo, finendo per spiegare poco e fare il gioco di chi è veramente responsabile di quegli atti.
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Scordiamoci, però, che si tratti dell’esercito islamico con uomini armati, in tute e bandiere nere alla conquista di Roma, Parigi, Berlino o Londra. Quella è propaganda di un progetto che fin dall’inizio nemmeno i vertici dell’IS credevano attuabile: l’obiettivo era e rimane destabilizzare, creare tensioni e divisioni all’interno di comunità che non si vogliono conquistare territorialmente ma culturalmente. Si tratta di una strategia che va oltre Raqqa e Mosul e che, nel momento in cui IS dovesse scomparire definitivamente, troverebbe altre sigle e altri soggetti da sostenere, non mutando i suoi obiettivi finali. I finanziamenti di paesi del Golfo al fenomeno estremista di matrice islamica in Gran Bretagna, Belgio, Francia e anche Spagna, è dimostrato da tempo e internet è pieno zeppo di seria documentazione al riguardo. Ecco perché la responsabilità di quegli attacchi non va imputata a un “debole IS” che ne rivendica la paternità solo per convenienza, ma a quegli Stati sovrani che sostengono la divulgazione di una cultura violenta, isterica ma totalmente distorta dell’ Islam per una conquista – attraverso addirittura una gara a chi elargisce più finanziamenti – del continente Europa o là dove vogliono proiettare la loro influenza politica, economica e culturale.
Si tratta di quello state-sponsored terrorism che doveva essere falcidiato all’indomani dei fatti di Parigi, se solo noi europei avessimo avuto il coraggio di prendere posizione univoca e soprattutto coerente con i cortei e i “je suis”. Ora, forse, si è presa coscienza, ma allora chi, come chi scrive, ne parlava in interviste radio o internet non veniva presa molto sul serio.
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Ecco perché da tempo temo molto – e vado parlando e scrivendo – di educazione al jihad, soprattutto di giovani, addirittura giovanissimi, dal Vicino Oriente, al centro Asia sino all’Africa, attraverso reclutamento diretto, indottrinamento faccia a faccia (e non solo quindi web), campi di addestramento militare, selezione di potenziali kamikaze etc etc. Un fenomeno anche questo, ma solo per superficialità e purtroppo becero opportunismo, che non è mai stato preso adeguatamente in considerazione nelle analisi e nei commenti. In Europa, poi, se il fenomeno viene individuato, eccolo immediatamente strumentalizzato a fini politici interni di tutt’altro genere, alimentando così approcci populisti islamofobi che finiscono per impedire una comprensione corretta del fenomeno, facendo, paradossalmente, il gioco del nemico. Ecco perché ci saranno ancora in futuro altri Barcellona, Turku, e quant’altro. Per cui, almeno una volta, sforziamoci di guardare oltre i proclami e le esultanze dell’IS, concedendogli la paternità di quegli atti ma non limitandosi a consolarci, a nostra volta, della sua fragilità strategica ed operativa. Guardiamo altrove, non cercando più compromessi fra le nostre coscienze, le nostre carenze e, soprattutto, il nostro opportunismo”.
UFFICIALE ANTITERRORISMO IRACHENO