INNOCENTE LA SOMALA ARRESTATA PER TRAFFICO DI BAMBINI

Condividi l'articolo
  • Testata            Panorama
  • Data Pubbl.     11/03/1999
  • Numero           0010
  • Numero Pag.   73
  • Sezione            ATTUALITA’
  • Occhiello         ODISSEE ITALIANE IL RACCONTO DI SHARIFA, LA SOMALA ARRESTATA PER TRAFFICO DI BAMBINI
  • Titolo  FIGLI DI UNA GIUSTIZIA MINORE
  • Autore MARCO GREGORETTI
  • Testo

Ha 40 anni. E’ vedova perché suo marito Abubakar è morto l’ anno scorso in un incidente stradale a Nairobi, Kenya, dove si era rifugiata nel 1991 fuggendo dalla Somalia. Il suo nome vero è Salima. Ma tutti la chiamano Sharifa: nel dialetto bravano, che si parla a 250 kilometri da Mogadiscio, vuol dire più o meno “Santa”. Il suo incubo italiano dura dall’ 11 maggio dell’ anno scorso. Voleva andare a Londra, raggiungere i suoi parenti e ottenere lo status di rifugiata politica. Invece si è fatta sei mesi di prigione a San Vittore, accusata di traffico di minori. All’ arrivo in Italia, le sono stati sottratti Abdul, 10 anni, e Amina, 11. Solo molte settimane dopo l’ arresto, grazie anche al test del Dna, si è scoperto che quei due bambini erano suo figlio e sua nipote. Ma per quasi un anno non è riuscita a vederli: il Tribunale dei minori glielo ha sempre impedito. E solo ora che Ilda Boccassini, il pm milanese che l’ aveva incriminata (il cui operato è stato difeso a spada tratta dal capo della procura Francesco Saverio Borrelli), ha chiesto l’ archiviazione, potrà andarli a trovare a Monza, nel centro di accoglienza dove sono rinchiusi. Per i 2 mila dollari che le autorità le hanno sequestrato, però, dovrà ancora attendere: la burocrazia su questo punto non vuole cedere. Aspettando che in qualche modo le venga resa giustizia, Sharifa ha accettato di affidare a Panorama il diario italiano. Con una dimenticanza, forse voluta: non ricorda nulla degli interrogatori. Sono flash dell’ angosciante assurda e kafkiana vicenda di una giovane donna che dal 1991 scappa con due bambini da una guerra civile (quella che si combatte in Somalia) e si trova, come dice lei stessa a Panorama “in una guerra ancora più brutta, perché proprio non me l’ aspettavo”. Ma è anche la testimonianza di un terribile corto circuito tra forze dell’ ordine, magistratura, suore e assistenti sociali nel quale potrebbe incappare chiunque. L’ incontro con Sharifa, nel salone spoglio dell’ Associazione delle mamme somale, a Milano, è duro. Lei si interrompe e piange ogni volta che cerca di parlare dei bambini. Hattas, il cugino che aveva accompagnato Sharifa in Italia e anch’ egli finito in prigione con le stesse accuse, Marion Ismail, vicepresidente dell’ associazione che si occupa del suo caso e l’ agguerrita consigliera nazionale dei Verdi Maddalena Traversi, cercano di consolarla. Il suo diario comincia dall’ ultimo atto: l’ attesa dell’ ordinanza finale, quella che le consentirà di vedere finalmente figlio e nipote. Martedì 2 marzo 1999. “Sono qui che aspetto al Tribunale dei minori di Milano. Il mio avvocato mi ha detto che devono darmi una carta per vedere i bambini (si riferisce all’ ordinanza del Tribunale che deve essere depositata, ndr). Aspetto e penso a questa strana storia. A questa strana guerra italiana. Ci penso da quella sera che sono arrivata”. L’ arrivo a Linate, da dove avrebbe dovuto proseguire per Londra. Lunedì 11 maggio 1998. “Controllano il passaporto a me e a Mohammed Hattas che mi accompagna. Nel mio, sotto la voce “children” non c’ è scritto niente. I nomi dei bambini sono in un’ altra pagina. I poliziotti si insospettiscono. Aprono le valigie e mi chiedono perché c’ è così poca biancheria intima per i bambini. Poi sequestrano i mei soldi, 2 mila dollari e quelli di Hattas, 12 mila. Mi sembra strano tutto questo. Poi dicono di aspettare e mi fanno sedere. Alle 3 del mattino portano i bambini via. Penso per lavarli. Presto mi rendo conto che non è così. Piango. Piangono anche i bambini. I poliziotti mi assicurano che li rivedrò il giorno dopo, ma non è vero. Poi fanno salire me e Hattas su una macchina e ci accompagnano in questura. Dopo un paio d’ ore siamo in una prigione che si chiama San Vittore. Penso che sarebbe meglio morire”. I due piccoli, nel frattempo, vengono trasferiti nell’ istituto di Monza. In arresto. Da martedì 12 maggio a mercoledì 11 novembre 1998, con l’ accusa di traffico di minori. “Hattas lo hanno messo in una cella con tre marocchini accusati di spaccio di droga e un bosniaco arrestato per violenza non so di che genere. Lo vogliono picchiare perché credono che sia un trafficante di bambini. Io sono con tre signore nigeriane. Il problema della lingua è pesante: io parlo solo il bravano. Però ci capiamo a gesti. Ho paura e sono spaventata. Penso di rimanerci poche ore e che mi porteranno i bambini in cella. Le tre nigeriane ridono e mi fanno capire di mettermi l’ anima in pace: qui i bambini non entrano. Non mi sono fatta neanche il letto. La seconda mattina me lo ha fatto una di loro. Non c’ è la federa, allora ha messo sul mio cuscino un suo pezzo di stoffa. Poi mi ha tranquillizzata e a gesti mi ha detto che avrei rivisto i miei bambini. I giorni scorrono e io non ho notizie. Non ho voglia di mangiare: mi manca l’ appetito e temo che mi diano della carne di maiale. Per un po’ mi imboccano con la forza le mie compagne di cella. Poi tutte le mattine una suora mi dà un po’ di latte. Passo il tempo a pensare e a recitare i versi del Corano: quelli sulla morte e quelli per la protezione dei bambini. Continuo a non avere notizie”. E’ il momento più drammatico dell’ incontro con Sharifa. Perché un somalo presente le allunga una fotocopia delle fototessere di Abdul e Amina e lei scoppia a piangere. “Sono morti. Mi uccido con il veleno” dice. Il ricovero in ospedale. Niguarda, reparto psichiatrico. Settembre 1998. “Ci sono stata 17 giorni. Davanti alla porta ci sono sempre due poliziotti. Il problema è che non mangio. Mi fanno continuamente dei prelievi. E poi, per farmi mangiare, mi infilano qualcosa nel petto che mi fa molto male e mi esce anche del sangue dalla bocca”. Sharifa sostiene di essere stata trafitta da un cacciavite: si apre con pudore la camicetta e mostra una piccola cicatrice. “Poi ho come una sensazione di velo e i ricordi molto confusi. All’ inizio di ottobre mi hanno fatto un altro esame. E’ quello del Dna, mi dice l’ avvocato, serve a stabilire che Abdul è tuo figlio. Aspetto con ansia 20 giorni. Alla fine tutti dicono che è figlio mio”. Mercoledì 11 novembre Sharifa viene scarcerata per decorrenza dei termini. Ma c’ è un problema. Dove andare? Marion Ismail e Maddalena Traversi si danno da fare. E le trovano una sistemazione presso una famiglia bravana che vive a Melegnano, hinterland milanese. Sharifa si rende utile in casa, ma continua a non mangiare: è dimagrita 15 kili. Sogna di vedere figlio e nipote che crede morti. Ismail e Traversi decidono, così, di portarla a Monza. L’ incontro mancato con Abdul e Amina. Lunedì 22 febbraio 1999. “La mattina Ismail, Maddalena e io siamo andate a Monza, all’ orfanotrofio. La direttrice, però, non ce li fa vedere. Sostiene – mi ha spiegato Ismail – che non abbiamo il permesso. Ma io penso che siano morti. Poi andiamo da una signora, l’ assistente sociale, che si è molto arrabbiata perché non abbiamo l’ appuntamento. Dice che me ne devo andare, altrimenti peggioro la situazione. E poi spiega che farà la sua relazione e che bisogna aspettare i tempi tecnici della giustizia”. Sharifa dovrà scrivere altre pagine prima di riavere Abdul e Amina e ottenere l’ agognato status di rifugiata politica. Però un primo piccolo bilancio ritiene già di affidarlo al suo diario: “Non auguro a nessuno quel che è capitato a me. Degli italiani ho sempre sentito dire bene. Sapevo che Benito Mussolini era italiano. In Somalia ho conosciuto dei medici italiani buonissimi. Ma essere accusata di aver rubato dei bambini mi ha fatto molto soffrire”.